Cambiamento climatico, cos'è e perché è un dato reale

Cause, conseguenze e soluzioni della prima emergenza della nostra epoca: il cambiamento climatico. Siamo stati noi a provocarlo, possiamo essere noi a scongiurare le sue manifestazioni più gravi.

cambiamento-climatico

Credit foto
©hummersallad / 123rf.com

 

Cambiamento climatico, cos'è

Partiamo dalla definizione ufficiale, quella espressa nella Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc). Con l’espressione “climate change”, tradotta in italiano come “cambiamento climatico”, si intende un cambiamento nel clima che soddisfa due condizioni:

  • “è attribuito direttamente o indirettamente all’attività umana che altera la composizione dell’atmosfera globale”
  • “è addizionale rispetto alla naturale variabilità del clima osservata in periodi comparabili di tempo”. 

 

È vero infatti che il clima è già cambiato innumerevoli volte: soltanto negli ultimi 650mila anni si sono alternati almeno sette periodi glaciali. Quello che è successo negli ultimi 150 anni, però, non ha eguali nella storia della Terra, con un aumento della temperatura media globale di oltre 1 grado. Un fenomeno, quest’ultimo, che non ha nulla di naturale.

 

Le cause del cambiamento climatico

Cercando in Rete ci si abbatte in bizzarre tesi per cui a causare il cambiamento climatico sia il Sole, oppure lo spostamento dell’asse terrestre. In realtà sul tema è già stato raggiunto il pieno consenso scientifico, perché più del 99% degli scienziati sostiene la stessa cosa: il riscaldamento globale è dovuto all’uomo che emette in atmosfera enormi quantità di gas a effetto serra. 

 

Il più celebre di questi gas è l’anidride carbonica (CO2), ma ci sono anche il metano (CH4), il vapore acqueo (H2O), il protossido di azoto (N2O), l’esafluoruro di zolfo (SF6) e gli alocarburi (gli unici non presenti in natura ma emessi esclusivamente dall’uomo). Si distinguono l’uno dall’altro per il global warming potential, cioè per il loro contributo all’effetto serra, e per il tempo di permanenza in atmosfera.

 

Ma quali sono, nel concreto, le attività che generano questi gas serra? Una delle stime più attendibili è quella del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite (Ipcc) che si riferisce al 2010:

  • il 25% è dovuto alla produzione di elettricità e calore mediante i combustibili fossili;
  • il 6% agli edifici;
  • il 10% ad altre attività legate alla filiera dei combustibili fossili;
  • il 24% ad agricoltura, allevamento e deforestazione
  • il 21% all’industria
  • il 14% ai trasporti.

 

L'effetto serra

Su qual è la causa principale del cambiamento climatico ci sono pochi dubbi: il fattore scatenante è l’effetto serra. Ma di cosa si tratta?

 

Di per sé, l’effetto serra è un fenomeno naturale. Quando i raggi solari raggiungono la superficie terrestre, una piccola parte viene riemessa sotto forma di raggi infrarossi, cioè di energia termica. I cosiddetti gas serra (anidride carbonica, metano, ossido nitroso, ozono e clorofluorocarburi) li riflettono, reirradiandoli sulla superficie terrestre. In questo modo trattengono nell’atmosfera una parte del calore irradiato dal sole, proprio come avviene nelle serre dove si coltivano piante e fiori.

 

Senza l’effetto serra, la temperatura media globale sarebbe all’incirca di 18 gradi centigradi sotto zero, rendendo la Terra un luogo parecchio inospitale.

 

Quello che è successo con l’industrializzazione, però, è che l’uomo ha iniziato a emettere nell’atmosfera gigantesche quantità di gas serra che i serbatoi naturali (cioè gli oceani e le foreste) non riescono più ad assorbire. Di conseguenza, la temperatura media globale aumenta.

 

L'aumento della temperatura

L’effetto serra, dunque, fa sì che il calore rimanga immagazzinato all’interno dell’atmosfera. Per capire quali sono le conseguenze si misura la temperatura media globale, cioè la media di tutte le temperature che ogni giorno vengono registrate dalle centraline meteorologiche sparse sulla Terra.

 

Già oggi questa media supera di circa 1,2 gradi centigradi quella dell’epoca pre-industriale, cioè precedente al 1750, quando le comunità umane iniziarono a bruciare carbone, petrolio e gas per produrre energia e alimentare case e industrie.

 

Ma di quanto aumenterà ancora? Impossibile dare una sola risposta su come sarà il clima nel 2050, perché tutto dipende da quanto saranno incisive le politiche per tagliare le emissioni. Nonostante gli appelli del segretario generale delle Nazioni Unite, ad oggi le misure sono ancora ampiamente insufficienti. Tant’è che, se manterremo lo status quo, le conseguenze saranno gravi e irreparabili. 

 

Un recente rapporto dell’Organizzazione meteorologica globale sostiene che ci sia il 50% di probabilità di sforare la soglia dei +1,5 gradi centigradi entro il 2026; peccato però che la comunità internazionale si sia impegnata a non oltrepassare questo limite prima della fine del secolo.

 

Le conseguenze del cambiamento climatico

In che modo questo incremento della temperatura inciderà sul futuro dell'ambiente? Le conseguenze sono molto diverse e talvolta apparentemente contraddittorie tra loro, tant’è che sarebbe più corretto parlare di cambiamenti climatici, al plurale. Riassumendo, le manifestazioni della crisi climatica sono:

  • Fusione dei ghiacciai montani e delle calotte artiche
  • Innalzamento del livello dei mari
  • Acidificazione degli oceani, con gravi conseguenze sulla biodiversità
  • Ondate di calore e siccità
  • Desertificazione di regioni che oggi godono di un clima temperato
  • Perdita di biodiversità in vari ecosistemi
  • Eventi meteo estremi più intensi e frequenti (come alluvioni e uragani)
  • Variazioni nell'andamento delle precipitazioni

 

La crisi idrica

La crisi idrica merita un capitolo a parte perché coinvolge in prima persona, e in modo determinante, il futuro dell'ambiente in Italia. 

 

Il cambiamento climatico ha un impatto sul ciclo dell’acqua, influenzando il luogo, il tempo e la quantità di precipitazioni e incrementando le probabilità che si verifichino uragani, cicloni, piogge torrenziali. Questo accade perché le temperature più elevate fanno evaporare l’acqua degli oceani che tende a riversarsi sulla terra sotto forma di precipitazioni intense. 

 

Queste piogge, però, non sono uniformi. Al contrario, alcune regioni del mondo assistono a un inasprimento delle condizioni di siccità. Lo tocchiamo con mano in Italia, dove le scarse piogge e il caldo anomalo negli ultimi anni hanno fatto sì che in montagna non si accumulasse neve a sufficienza per alimentare i fiumi. 

 

Ma tra le zone a rischio di desertificazione ormai ci sono anche vaste aree del Medio Oriente, del Cile, anche della Spagna. E la California, uno degli Stati più ricchi degli Usa e del mondo, si è trovata costretta a razionare l’acqua.  

 

I migranti climatici

Il futuro dell’ambiente è anche una questione umanitaria, sociale, politica. Perché, se alcuni Stati diventeranno inospitali o addirittura invivibili per la crisi climatica, i loro abitanti non avranno altra scelta se non quella di andarsene.

 

Questo fenomeno si chiama migrazione climatica ed esiste già. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) stima che circa 20 milioni di persone ogni anno lascino le loro case, pur senza uscire dai confini dello Stato, perché sono state distrutte da un uragano; oppure perché il livello del mare è sempre più alto e le minaccia; o perché i loro campi coltivati sono diventati aridi; o per altri motivi indiscutibilmente legati ai cambiamenti climatici. 

 

Questo è solo l’inizio. L’Institute for Economics and Peace stima che, entro il 2050, 1,2 miliardi di persone in tutto il mondo saranno sfollate per via del riscaldamento globale e dei disastri da esso causati. Considerato che nel frattempo l’umanità sarà arrivata a sfiorare i 10 miliardi di persone, ciò significa che 12 individui su 100, nel mondo, saranno migranti climatici.

 

Le promesse fatte a Kyoto nel 1997

Cosa si può fare per fermare il cambiamento climatico? Questo è stato il tema del Summit della Terra, la prima conferenza sull’ambiente che riuniva i capi di Stato di tutto il mondo a Rio de Janeiro, in Brasile, nel 1992. All’epoca, un quarto di secolo prima di Greta Thunberg, la dodicenne Severn Cullis-Suzuki lanciava il suo allarme inascoltato sul cambiamento climatico.

 

È stata la prima delle Cop, le Conferenze delle parti sul clima, poi tenutesi ogni anno (ad eccezione del 2020) con alterne fortune. Tra le pietre miliari si può citare senza dubbio la Cop3 del 1997, tenutasi in Giappone. Il Protocollo di Kyoto, infatti, per la prima volta impone ai Paesi più ricchi di abbattere le proprie emissioni di CO2 del 5% entro il periodo 2008-2012, rispetto ai livelli del 1990.

 

Perché solo ai Paesi ricchi? Perché sono quelli che, con le proprie attività industriali, storicamente hanno generato maggiori quantità di gas a effetto serra.

 

COP e UNFCCC: l'Accordo di Parigi

Un altro momento chiave è stato segnato nel dicembre 2015 alla Cop21 di Parigi, quando l’intera comunità internazionale (e non soltanto gli Stati industrializzati) si è impegnata con l'Accordo di Parigi a “mantenere l’aumento totale della temperatura ben al di sotto dei 2°C”, facendo “tutto il possibile” per non superare gli 1,5 gradi centigradi, sempre rispetto ai livelli preindustriali. 

 

Ma com’è possibile? Riducendo drasticamente le proprie emissioni di gas serra fino ad arrivare entro il 2050 allo zero netto, cioè a una situazione in cui le emissioni sono talmente poche da poter essere completamente riassorbite dai serbatoi naturali (cioè oceani e foreste) e artificiali (cioè le tecnologie di cattura e stoccaggio).

 

Ciascuno Stato deve sottoporre alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc) la propria strategia dettagliata, chiamata NDC (Nationally Determined Contribution).

 

Gli accordi internazionali sul clima oggi

Con il Patto di Glasgow, siglato alla Cop26 del 2021, la comunità internazionale ha messo nero su bianco quanto l’obiettivo dei 2 gradi non sia più da considerarsi sufficiente: la soglia da non superare è quella degli 1,5 gradi. Quel mezzo grado in più potrà sembrare un fattore da poco, ma può fare la differenza per il futuro dell’ambiente. 

 

Com’è andata a finire la Cop27 di Sharm-el-Sheikh, in Egitto? Non sono stati fatti grossi passi avanti sulla mitigazione, cioè sull’abbassamento delle emissioni di CO2. Il traguardo raggiunto è stato piuttosto un altro: gli Stati si sono impegnati per l’istituzione di un fondo per il loss and damage, cioè il risarcimento delle perdite e dei danni che i Paesi più poveri hanno subito – o subiranno inevitabilmente – a causa del clima.

 

La transizione ecologica

Ma quali sono le misure contro il cambiamento climatico? La priorità sulla quale focalizzare tutti gli sforzi è la transizione ecologica, cioè un vasto processo di cambiamento che mira a ridurre l'impatto ambientale delle attività umane e a promuovere uno sviluppo sostenibile.

 

La transizione ecologica coinvolge un'ampia gamma di settori, dall'energia alla mobilità, dall'agricoltura alla produzione industriale. Gli obiettivi principali sono la riduzione delle emissioni di gas serra, l'efficienza energetica, l'uso di fonti energetiche rinnovabili e la promozione dell'economia circolare.

 

Chiaramente, alla base dev’esserci un forte impegno da parte di:

  • governi: devono adottare politiche e regolamenti che incentivino l'adozione di tecnologie pulite e la riduzione delle emissioni di gas serra;
  • imprese: devono intervenire sui propri prodotti e processi per riconfigurarli in chiave sostenibile;
  • cittadini: devono adottare uno stile di vita che consumi meno risorse e incida il meno possibile in termini di emissioni.

 

Da questo punto di vista è confortante il fatto che l’attenzione e la sensibilità stiano crescendo a tutti i livelli. Ne è una prova la pervasività del movimento Fridays for future, iniziato dall’attivista svedese Greta Thunberg

 

Decarbonizzazione ed energie rinnovabili

Quando si parla di cambiamenti climatici, cause e soluzioni, è indispensabile focalizzarsi sul grande capitolo della decarbonizzazione, cioè del passaggio da un’economia basata sulle fonti fossili (carbone, petrolio e gas naturale) a un’economia basata sulle fonti rinnovabili.

 

Il sole, il vento, l’acqua e le biomasse infatti possono offrire l’energia che ci serve senza emettere CO2 in atmosfera. Non solo, presentano anche altri indiscutibili  vantaggi ambientali: sono inesauribili, non vanno estratte dal sottosuolo (con tutti i rischi che ne conseguono), sono disponibili ovunque e non danno dunque adito a tensioni geopolitiche. 

 

L’Agenzia internazionale dell’energia (IEA), nella sua “Roadmap to zero”, mette bene in chiaro che gli investimenti in fonti rinnovabili dovranno più che triplicare entro il 2030, raggiungendo i 4mila miliardi di dollari all’anno. Solo così sarà possibile azzerare le emissioni nette entro il 2050. 

 

Questo avrà conseguenze positive anche per la vita delle persone, perché la transizione energetica porterà alla creazione di milioni di posti di lavoro, contribuirà positivamente alla crescita economica e garantirà l’accesso universale all’energia elettrica e a sistemi di cottura sicuri.

 

Certamente stona, in tutto questo percorso, il fatto che il presidente della Cop28 Ahmed al Jaber sia un magnate dell’industria petrolifera e abbia espresso posizioni di difesa nei confronti dei combustibili fossili. È da capire se, e quanto, questo inciderà sull’esito dei negoziati.

 

Come sarà il clima nel 2050?

Come sarà il clima nel 2050? Impossibile dare una risposta univoca. Un’analisi realizzata dalla Fondazione CMCC però fornisce alcune previsioni relative all’Italia, basandosi su diversi modelli climatici.

 

In tutti gli scenari aumenta il numero di giorni caldi e dei periodi senza pioggia, in special modo nelle regioni del centro e del sud Italia, con impatti anche sull’ambiente marino e costiero. I costi vanno dallo 0,5% del Pil a fine secolo (nello scenario più ottimista) fino a un massimo dell’8%, nello scenario peggiore. Le perdite maggiori si determinano nelle infrastrutture, nell’agricoltura e nel turismo.