Deep sea mining, cos'è

Estrarre minerali dai fondali oceanici: è lo scopo del deep sea mining, una tecnica ancora pionieristica e già controversa sul fronte ambientale.

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©Vadym Kurgak / 123rf.com

 

Cos’è il deep sea mining

Nemmeno i fondali oceanici sono immuni dalle mire di profitto dell’uomo. Lo dimostra il deep sea mining, una pratica – ancora pionieristica e poco conosciuta – che prevede di estrarre i minerali dalle profondità oceaniche.

 

Una volta mappate le aree che contengono minerali in quantità rilevanti, le compagnie procedono con il rastrellamento dei fondali, arrivando anche a profondità di 4-5 mila metri. Così facendo, smuovono i sedimenti e li aspirano attraverso delle tubature che li portano fino alle navi di appoggio. 

 

Le risorse minerarie presenti nei fondali marini

Ma quali risorse minerarie si possono estrarre dai fondali marini? Sono davvero così preziose da giustificare un simile investimento economico e tecnologico? A elencarle è un approfondimento pubblicato da Pew Charitable Trust:

 

  • Noduli polimetallici che contengono elevate concentrazioni di manganese, nichel, rame e cobalto. Sono stati identificati in un numero ristretto di aree, prima fra tutte la cosiddetta Clarion-Clipperton Zone, una piana abissale estesa quanto il territorio degli Stati Uniti che si trova tra i 4 e i 6mila metri sotto la superficie dell’oceano Pacifico orientale. 
  • Solfuri polimetallici, spesso trovati nelle zone caratterizzate da attività vulcanica ed espansione dei fondali, in prossimità delle faglie tettoniche. Sono grumi di oro, zinco, piombo, rame e terre rare.  
  • Croste di cobalto. Hanno uno spessore che tipicamente si aggira tra i 10 e i 15 centimetri (ma può arrivare fino ai 25) e coprono i versanti delle montagne sottomarine dell’oceano Pacifico occidentale, a una profondità compresa tra gli 800 e i 2.500 metri. 

 

Stati e aziende che puntano sul deep sea mining

A governare queste attività estrattive è l’International seabed authority (Isa), fondata nel 1982 sotto l’egida delle Nazioni Unite. Riunisce 168 membri, inclusa l’Unione europea, e ha potere decisionale su un’area di acque internazionali che corrisponde al 54 per cento della superficie totale degli oceani.

 

Un report di Greenpeace International segnala che l’Isa a giugno 2019 aveva rilasciato 30 concessioni per le estrazioni minerarie sottomarine, per un’area complessiva che potenzialmente supera il milione di chilometri quadrati in acque internazionali. 

 

Circa un terzo di questi contratti coinvolge aziende private. La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Unclos) apre infatti a questa possibilità, a patto che le società siano monitorate e sostenute da un governo aderente all’Unclos stessa. 

 

La questione resta però controversa, almeno a detta di Greenpeace, che sottolinea una contraddizione. L’area interessata dal deep sea mining viene definita ufficialmente come un “patrimonio comune dell’umanità”; le operazioni hanno un impatto diretto soprattutto sui piccoli Stati isola; eppure a dirigerle (e intascare i proventi) sono poche grandi corporation che hanno sede nei Paesi più ricchi e operano attraverso un’intricata rete di fornitori e subfornitori.

 

I progetti estrattivi della Norvegia

Dopo aver costruito la sua ricchezza sullo sfruttamento degli idrocarburi nel mare del Nord, la Norvegia guarda con interesse alle miniere sottomarine. È quanto riporta l’agenzia Reuters, dopo aver interpellato la ministra del Petrolio e dell’energia Tina Bru

 

Dopo tre anni di esplorazioni della zona compresa tra l’arcipelago delle Svalbard e l’isola di L'isola di Jan Mayen, a circa 700 chilometri dalla costa, è stata accertata la presenza di giacimenti sottomarini di oro, argento, rame, zinco e cobalto.

 

Le stime più ottimiste parlano addirittura di 21,7 milioni di tonnellate di rame (più dell’intera produzione globale del 2019) e 22,7 milioni di tonnellate di zinco, ma le quantità reali potrebbero essere parecchio inferiori. Sono state trovati anche litio e scandio, preziosi per la produzione di dispositivi elettronici come gli smartphone.

 

Il governo di Oslo ha dato il via a una valutazione sull’impatto ambientale del deep sea mining, i cui risultati saranno sottoposti a una consultazione pubblica. Se riceverà il via libera dal Parlamento, potrebbe concedere le prime licenze alle imprese già tra la fine del 2023 e il 2024.

 

L’impatto ambientale del deep sea mining

Ma interventi così invasivi non rischiano di danneggiare ecosistemi tanto delicati e ancora in larga parte sconosciuti? La questione è ancora aperta. Trattandosi di un campo di studio ancora in piena evoluzione, per ora si possono soltanto fare ipotesi che andranno poi validate a suon di evidenze scientifiche.

 

Esprime forte preoccupazione Greenpeace, paventando rischi su più fronti:

 

  • Il deep sea mining potrebbe “generare gravi danni ambientali potenzialmente irreversibili, sia nei siti minerari che al di fuori di essi”. Visto che conosciamo in modo molto lacunoso i meccanismi che regolano l’ecosistema oceanico e la biodiversità che lo abita, abbiamo anche meno strumenti per proteggerlo.
  • I sedimenti in acque profonde sono una riserva a lungo termine di carbonio, che potrebbe essere liberato in atmosfera dalle operazioni di scavo, aggravando il riscaldamento globale.
  • L’industria del deep sea mining si dipinge come essenziale per un futuro a basse emissioni, ma “questa affermazione non è corroborata da attori del settore delle energie rinnovabili, dei veicoli elettrici o delle batterie”. 
  • L’Isa finora non ha mai negato una concessione e, a detta di Greenpeace, sembra troppo vicina al mondo dell’industria. Pare addirittura che, nel corso di alcune riunioni, siano state le società a esprimersi a nome delle delegazioni governative.
  • Parallelamente all’Isa si rende necessario un vero e proprio Trattato globale sugli oceani, guidato dall’Onu con la partecipazione di tutti i governi. L’organizzazione ambientalista propone di identificare una rete di santuari in acque internazionali da tenere al riparo da qualsiasi mira economica.