Caporalato, cos’è

Nei campi di pomodori del sud Italia (e non solo), ogni anno migliaia di persone lavorano senza tutele né diritti, chine sotto il sole per una paga di pochi euro. Caporalato significa questo.

caporalato

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Caporalato, cos'è

Il caporalato oggi è una delle forme di sfruttamento del lavoro più diffuse e, tuttora, impunite. Si parla di caporalato quando le imprese, soprattutto agricole, si affidano a intermediari (i caporali, appunto) per reclutare braccianti e operai che lavorano a giornata, in nero, senza diritti né tutele.

 

In che cosa consiste la pratica del caporalato 

La piaga del caporalato è diffusa soprattutto nell’agricoltura del sud Italia, in particolar modo per la raccolta stagionale dei pomodori, di cui l’Italia è il secondo produttore globale dopo gli Stati Uniti e prima della Cina. 

 

I braccianti reclutati dai caporali vengono portati nei campi alle prime ore del mattino e restano al lavoro per turni massacranti di dieci o dodici ore, sotto il sole cocente. Vengono pagati a cottimo: di norma, ricevono appena 3,50 euro per un cassone da 300 chili di pomodori. Visto che lavorano in nero, non hanno nessuna tutela contrattuale, non sono coperti da un’assicurazione e non incassano i contributi previdenziali.

 

Di solito finiscono per vivere nei ghetti, insediamenti informali nelle campagne che possono prendere la forma di vere e proprie baraccopoli. Luoghi inospitali, privi di servizi, dove migliaia di persone vivono ammassate in condizioni igieniche precarie. Se ne sente parlare quando avvengono episodi tragici, come gli incendi (a Rignano Garganico nel 2017 morirono due persone) o gli incidenti stradali a bordo dei furgoni dei caporali.  

 

Questo è l’esempio tipico, ma non è l'unico: casi di caporalato in Italia si sono verificati anche al nord, o nelle fabbriche. E non mancano gli esempi di caporalato nel mondo.

 

Perché si dice "caporalato”

Il caporalato si chiama così perché il caporale è l’intermediario che, nelle prime ore della mattina, cerca i braccianti per la giornata per conto delle aziende agricole, intascando in cambio una tangente.

 

Da quando esiste il fenomeno del caporalato

Trattandosi di un fenomeno illegale che spesso sfugge ai controlli, è difficile stabilire una data di nascita del caporalato in Italia o nel mondo. Quel che è certo è che non si tratta di una novità degli ultimi anni, e ce lo dimostrano alcuni fatti di cronaca rimasti tristemente noti. 

 

Come la tragica morte di tre ragazze, due delle quali ancora minorenni, a bordo del furgone di un caporale a Ceglie Messapica, nel brindisino. Erano sveglie dalle tre del mattino per andare a raccogliere fragole. Era il 19 maggio 1980. All’epoca la tragedia fece molto scalpore e fu seguita da manifestazioni e scontri, anche molto accesi.

 

Dove è più diffuso il caporalato 

Il caporalato è un fenomeno purtroppo endemico per l’agricoltura del sud Italia, ma non solo. il quadernoGeografia del Caporalato, realizzato dall’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil, incrocia quanto emerso dalle testimonianze sul caporalato raccolte dal sindacalisti, dalle operazioni di polizia e dalle denunce.e non manca qualche sorpresa. 

 

Su 405 località in cui il caporalato oggi è più diffuso, infatti, poco meno della metà è al sud e nelle isole. La regione più problematica è la Sicilia con 53 aree segnalate, ma al secondo posto c’è il Veneto con 44. A chiudere il podio è la Puglia, con 41. Poi ci sono Lazio e Calabria (39 ciascuna), Emilia (38), Piemonte e Lombardia (20 ciascuna).

 

E non è tutto qui, come dimostrano le inchieste che allargano lo sguardo al caporalato nel mondo. Il rapporto E(U)xploitation per esempio è composto da tre capitoli dedicati rispettivamente all’Italia, alla Spagna (tra gli orti della Murcia e le coltivazioni di fragole dell’Andalucia) e alla Grecia (dove ripercorre il tragitto della frutta). 

 

Anche in Germania, allo scoppio della pandemia, sono emerse le drammatiche storie degli stagionali rumeni impiegati nei campi e nei macelli, costretti a lavorare senza alcuna tutela e a vivere in sovraffollati alloggi di fortuna.

 

Come combattere il caporalato

La lotta al caporalato si articola in due direzioni: la prima dipende dalle istituzioni e dalle forze dell’ordine, ed è il rispetto della legge; la seconda invece è il consumo consapevole, ed è responsabilità di tutti noi. 

 

Andiamo per ordine. In aggiunta alle leggi che regolano i corretti rapporti di lavoro, e che prevedono quindi un corretto inquadramento salariale e fiscale, la copertura assicurativa e il pagamento dei contributi, il caporalato in Italia è esplicitamente vietato dalla legge n. 199/2016.

 

Quest’ultima introduce infatti un articolo del codice penale (il 603-bis) che punisce sia il caporale sia il datore di lavoro. Entrambi rischiano la reclusione da uno a sei anni e una multa da 500 a 1.000 euro per ogni lavoratore reclutato; ma le pene aumentano in presenza di violenza, minacce o altre aggravanti.

 

Noi cittadini, però, non possiamo restare fermi a guardare, sperando che la giustizia faccia il suo corso. Perché siamo noi, con i nostri acquisti, a orientare le scelte delle aziende. Se continuiamo ad andare alla ricerca del prezzo stracciato, indirettamente premiamo quelle aziende che sacrificano la sicurezza dei lavoratori pur di risparmiare.

 

Immaginiamo di trovare al supermercato una bottiglia da 700 ml di passata di pomodoro venduta a 1,30 euro; un prezzo verosimile, anzi, nella media. Ebbene, il 53% di quella cifra è il margine della distribuzione commerciale con le promozioni, il 18% sono i costi di produzione industriali, il 10% è il costo della bottiglia, l’8% è il valore riconosciuto al pomodoro, il 6% ai trasporti, il 3% al tappo e all’etichetta e il 2% per la pubblicità. A dirlo è Coldiretti.

 

Pelati e passate caporalato-free

Complice la sempre maggiore attenzione nei confronti dello sfruttamento del lavoro, negli ultimi anni sono arrivate sugli scaffali diverse conserve e passate di pomodoro caporalato-free. Eccone alcune:

 

  • Tomato Revolution, di Altromercato, i cui pomodori nascono nei territori di Prima Bio, in Puglia, e Cooperativa Rinascita, in Sicilia.
  • I prodotti di Associazione No Cap, nati dall’esperienza dell’attivista camerunense Yvan Sagnet, coordinatore del primo sciopero prolungato dei braccianti in Puglia, nell’estate del 2011.
  • I pelati Riaccolto raccolti in Puglia da Ghetto Out-Casa Sankara, un’organizzazione di volontariato nata da un gruppo di migranti africani.
  • Iamme, un marchio di passata, pelati e salsa che si può acquistare nei supermercati Megamark del sud Italia.
  • SfruttaZero, un progetto mutualistico promosso da italiani con difficoltà lavorative e stranieri che vengono da una storia di sfruttamento sul lavoro.