Intervista

Da dove arrivano la frutta e la verdura che portiamo in tavola? Sono salutari? Ne abbiamo parlato con Coldiretti

Frutta tropicale, mandorle californiane, arance spagnole. Perché questa invasione di frutta e verdura straniera nei nostri supermercati? L'abbiamo chiesto a Lorenzo Bazzana, responsabile economico di Coldiretti.

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Arance e fragole spagnole, mandorle californiane, pistacchi iraniani, avocado peruviani. Come mai sulle nostre tavole arriva così tanta frutta e verdura di importazione? Davvero non abbiamo altra scelta, oppure è una questione di convenienza economica? L’abbiamo chiesto a Lorenzo Bazzana, responsabile economico di Coldiretti, la più grande associazione di rappresentanza dell'agricoltura italiana.

 

In media, quale percentuale della frutta e verdura consumata dagli italiani è di importazione?

Circa il 10% dell’ortofrutta è di importazione, ma molto dipende dalle stagioni, dalle annate e dai singoli prodotti, poiché sono influenzati dall’andamento del clima e dal quantitativo di semine. Quest’anno, per esempio, la produzione italiana di pere è crollata dal 70% a causa delle gelate primaverili, della cimice asiatica e della maculatura bruna; l’importazione quindi è aumentata rispetto al passato.

Di base non ci sarebbe nemmeno bisogno di questo 10% di importazioni, perché la nostra produzione soddisfa il fabbisogno, ma bisogna rispondere anche alla domanda di frutta e verdura fuori stagione (come le zucchine a dicembre) e di frutti tropicali. Le banane sono il terzo frutto più consumato in Italia dopo mele e arance, perché qualcuno ha fatto credere ai nostri connazionali che siano l’unica fonte di potassio; ma non è vero, il kiwi ne ha di più. Alcuni frutti tropicali si iniziano a coltivare anche in Italia, a causa dell’aumento delle temperature e dei cambiamenti climatici.

 

Avete qualche dato anche sulle altre tipologie di alimenti?

Anche per le altre categorie alimentari bisogna fare un discorso caso per caso. Circa il 50% della pasta è fatto con grano duro che arriva dall’estero. Se parliamo invece di pane, cracker, biscotti, pizza, panettone e pandoro, il grano tenero d’importazione è il 60-65% a seconda delle annate. Dobbiamo puntare all’autosufficienza alimentare che, soprattutto con la pandemia Covid e le tensioni sui mercati internazionali, ha dimostrato tutto il suo valore strategico per il Paese. Dobbiamo garantire il giusto prezzo agli agricoltori in modo che possano investire e incrementare le produzioni Made in Italy.

 

Alcuni prodotti, come la frutta secca californiana, vengono prevalentemente importati dall’estero nonostante la presenza di analoghe coltivazioni in Italia. Perché?

Prendiamo proprio l’esempio della frutta secca californiana. In Italia c’è una piccola produzione di prugne secche, nel modenese e nel ferrarese; per le noci invece non siamo autosufficienti (produciamo meno del 50% del nostro fabbisogno) e nemmeno per le mandorle, anche per via del grande consumo da parte dell’industria dolciaria. Il nostro è un paese trasformatore, quindi può essere autosufficiente per l’autoconsumo ma non per la realizzazione di prodotti trasformati che saranno a loro volta esportati. Per esempio, l’Italia è il secondo produttore mondiale di nocciole ma le deve comunque importare per soddisfare le necessità dell’industria.

 

C’è ancora qualche alimento per cui non è obbligatorio indicare l’origine in etichetta?

È obbligatorio indicare l’origine sull’ortofrutta fresca. Se è confezionata c’è un’etichetta sul packaging, se invece è sfusa c’è un cartello che riporta le medesime informazioni, cioè origine, categoria, calibro, varietà e specie. Al contrario, non vige l’obbligo dell’etichettatura di origine sull’ortofrutta trasformata: marmellate, confetture, succhi, nettari, puree, macedonie, minestroni, surgelati, fagioli o legumi in scatola o tetra brik.

 

Ci sono solo due eccezioni: i derivati del pomodoro e la frutta secca. Se la frutta secca è in guscio, è obbligatorio indicare l’origine; se invece è sgusciata spesso quest’informazione manca ma, secondo un’interpretazione dell’Unione europea, dovrebbe essere esplicitata.

 

Quindi, se su un vasetto di marmellata troviamo indicata l’origine delle fragole, è una scelta spontanea che dovremmo apprezzare?

Lo sforzo è da apprezzare. È chiaro che, nel momento in cui fa questa scelta, il produttore o il trasformatore si assoggetta a eventuali controlli da parte delle autorità preposte. Se per esempio dichiara che i fagioli borlotti sono stati coltivati in Italia, prima o poi qualcuno verrà a verificare. Ecco, proprio sui legumi in scatola la percentuale di importazione è altissima. In Italia vengono coltivati 4-5 milioni di kg di lenticchie all’anno, per esempio, e ne vengono commercializzati 33-34 milioni. Qui servirebbe un’etichettatura obbligatoria.

 

Quali sono i principali rischi per la salute legati agli alimenti di importazione?

Sono i dati a dimostrare che il prodotto coltivato in Italia, col meno dell’1% di non conformità, è più sicuro sia di quello coltivato in altri Paesi europei (dove il tasso di non conformità è pari all’1,3%) sia di quello coltivato al di fuori dell’Unione (dove si arriva al 5,6%). Questo perché le normative sono differenti. A nostro parere, chi esporta nell’Unione europea dovrebbe essere soggetto alle stesse regole vigenti per i coltivatori europei. Invece non è così. Di conseguenza, i produttori esteri hanno costi di produzione più bassi perché utilizzano princìpi attivi più economici ma anche più tossici per l’ambiente, gli operatori e i consumatori. L’Europa ha vietato i due terzi degli antiparassitari che venivano impiegati trent’anni fa, ma basta andare dall’altra parte del Mediterraneo per trovarli ancora in uso.

 

Anche l’agroalimentare italiano potrà trarre vantaggio dal Pnrr? Se sì, in che modo?

Noi di Coldiretti abbiamo presentato alcuni progetti legati al Pnrr. Un tema importante è quello del risparmio dell’acqua, perché i cambiamenti climatici rendono le precipitazioni più rare e più violente. Di conseguenza, l’acqua che cade con le bufere di vento e pioggia danneggia le coltivazioni, provoca dissesto idrogeologico e non può essere trattenuta per riutilizzarla nei periodi di siccità. Abbiamo quindi presentato un piano per gli invasi, che potremmo descrivere come valvole di sfogo per catturare l’acqua, evitare che faccia dei danni e averla a disposizione quando ce ne sarà bisogno.

Un secondo tema è quello della digitalizzazione che nelle campagne è ancora in ritardo: le imprese hanno bisogno di connessioni veloci per interagire con il mercato. Sicuramente anche la logistica è da affrontare, perché i tempi e i costi rischiano di rendere economicamente insostenibile il trasporto dei nostri prodotti verso i mercati domestici ed esteri, oltre a pregiudicarne la freschezza.