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Packtin, il packaging commestibile e biodegradabile

La startup emiliana Packtin dà una nuova vita agli scarti di pomodori e arance, trasformandoli in un innovativo packaging sostenibile.

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©paulovilela / 123rf.com

Too good to waste

Too good to waste, troppo buoni per essere buttati come rifiuti. È il nome di una piattaforma tecno-scientifica che vuole valorizzare i cosiddetti scarti agroalimentari, come le bucce di pomodoro o il pastazzo delle arance, trasformandoli in nuove materie prime per l’industria alimentare. 

 

Il progetto è stato avviato da Packtin, startup di Reggio Emilia, e ha ottenuto il supporto finanziario del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali. L’impianto pilota costruito a Reggio Emilia scompone questi sottoprodotti, estraendone fibre, vitamine e antiossidanti. L’obiettivo è quello di usarli per produrre rivestimenti per la frutta e la verdura fresca

 

Non stiamo parlando di un packaging qualsiasi. Innanzitutto sarà commestibile, biodegradabile e facile da lavare. Sarà inoltre in grado di allungare la shelf-life del prodotto, cioè rallentarne il processo di maturazione e tenere alla larga i batteri, cosa che evita ulteriormente gli sprechi. Infine, consentirà di evitare trattamenti come la ceratura degli agrumi.

 

Questi rivestimenti migliorano la vita post-raccolta degli alimenti ortofrutticoli, che di solito durano pochi giorni”, spiega il co-fondatore Andrea Quartieri. “Com’è noto il settore ortofrutticolo subisce grosse perdite lungo la filiera, dal campo alla tavola. La nostra tecnologia, allungando la vita a frutta e verdura, permette di migliorare la gestione del prodotto fresco in modo da ridurre gli sprechi durante le fasi di lavorazione, stoccaggio, trasporto, vendita e infine consumo”.

 

Tutt’altro che scarti!

Altro che scarti, i sottoprodotti dell’agroalimentare sono risorse preziose. Per fortuna, dopo decenni caratterizzati da una generale attitudine a buttare via senza farsi troppe domande, iniziano a emergere questo e altri progetti interessanti.

 

Il pastazzo degli agrumi è anche la materia prima con cui Orange Fiber, startup orgogliosamente siciliana, realizza un tessuto impalpabile e leggero, simile alla viscosa, da usare in purezza oppure mixato ad altre fibre tessili. 

 

Piñatex è sempre un tessuto, ma arriva dall’altro lato del Pianeta (dalle Filippine, per la precisione) e permette di valorizzare le foglie dell’ananas. Per aspetto e durevolezza è molto simile alla pelle, ma è assolutamente cruelty free. Un’altra similpelle vegana è Wineleather, fatta con le vinacce.

 

Se usciamo dal mondo della moda ci imbattiamo in Recover Ingredients, uno spinoff dell’ISTEC-CNR (Istituto di Scienza e Tecnologia dei Materiali Ceramici) che trasforma le lische di pesce in filtri solari, i gusci di molluschi in ingredienti per cosmetici e gli scarti di macellazione animale in fertilizzanti.

 

Economia circolare messa in pratica

Queste e altre esperienze nascono da due imperativi: ottimizzare le risorse, facendo di più con meno, e combattere lo spreco alimentare. La Fao ci dice che un terzo del cibo prodotto viene perso o sprecato lungo la filiera che va dalla produzione al consumo, e la prospettiva concreta è quella di arrivare al 40% entro il 2030.

 

La risposta si chiama economia circolare. Significa abbandonare l’approccio lineare che ci porta ad attingere alle risorse della natura, sfruttarle per realizzare un prodotto e poi buttarlo via appena finisce la sua vita utile.

Al contrario, dobbiamo iniziare a progettare già pensando alla seconda vita di quel prodotto, che magari rinascerà sotto un’altra forma, in un altro settore o per un pubblico diverso. Come avviene in natura, dove ogni fine è un nuovo inizio.