Intervista

Che cos'è la corporate sustainability?

Le imprese oggi devono misurarsi con i temi della sostenibilità. Non ci sono alternative. Intervista al professor Stefano Pogutz.

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Quando si parla di corporate sustainibility ci si riferisce a quel tipo di approccio che mira a creare valore attraverso l'implementazione di una strategia aziendale incentrata sulle dimensioni etiche, sociali, ambientali, culturali ed economiche del fare impresa.

Un tema enorme” ci spiega Stefano Pogutz, che insegna sostenibilità presso la SDA Bocconi School of Management. “Oggi abbbiamo 17 SGDs con 169 tipi di target possibili. Ciascuno di questi è una possibile dimensione della corporate sustainibility”.
 

Cerchiamo di limitare il campo. Quando è nato il concetto di corporate sustainibility?

Il tema della sostenibilità d’impresa non è nato recentemente: basti dire che io ci lavoro dalla mia tesi di laurea del 1992. Però è un concetto che ha avuto momenti di attenzione e poi di raffreddamento. Il concetto di corporate sustainibility è spesso mescolato con il concetto complementare di corporate and social responsibility.

Sono questioni di lana caprina, poiché nel lessico manageriale sono termini convergenti. In generale, si tratta di quei fattore messi in campo da un’azienda per compensare le proprie azioni e il loro impatto su società e ambiente.

In particolare, la corporate sustainibility ha un approccio sistemico in cui le risorse naturali sono parte del contesto. Un esempio, estremo: se scomparissero le api, che svolgono un lavoro gratuito, l’intero sistema agricolo collasserebbe.
 

Quindi la corporate sustainibility come strategia di impresa?

La corporate sustainibility oggi ha una centralità strategica per l’azienda, che va dalla minimizzazione degli impatti delle attività produttive (aria, acqua, rifiuti) a opportunità di differenziare i prodotti.

Patagonia, Illy, Barilla, per citare alcuni marchi, usano la sostenibilità come strumento per integrare la loro offerta sul mercato: d’altronde i millenials sono più attenti a questi aspetti.

Clima, parità di genere diventano criteri di brand activism ma anche di merger acquistition: oggi un’impresa A non può comprare un’impresa B se quest’ultima non dovesse rispettare criteri di sostenibilità. Chi oggi può comprare l’Ilva?

Oppure, un altro esempio: quando Bayer ha comprato Monsanto forse ha sottostimato le conseguenze di portarsi in casa un soggetto che nel contesto etico è valutato male. I consigli di amministrazione quindi scelgono anche in base a questi criteri e la sostenibilità, oggi, fa parte della due diligence, fa parte delle strategie aziendali.
 

Possiamo dire che consumatori più attenti alla sostenibilità orientano le strategie aziendali?

Sì, sono i consumatori giovani e attenti, che stressano la ricerca dell’autenticità -magari a volte in modo un po’ naive- però sono questi i consumatori che hanno creato l’effetto Greta. Se oggi non stanno ancora impattano sulla domanda, lo faranno tra poco.

Ma c’è un altro driver che guida le strategie aziendali ed è la comunità finanziaria. Il clima ha cominciato a far pagare il conto alle imprese e agli azionisti, quindi chi gestisce fondi esposti al riscaldamento globale (per esempio quelli relativi ai combustibili fossili) sta cambiando direzione.

Vedi la Orstend, piccola multinazionale danese nel campo delle energie rinnovabili che oggi capitalizza in borsa più di Shell. Quelli che sono stati dei colossi fino al giorno prima possono smetterlo di esserlo da un giorno all’altro.
 

Infatti, il mondo finanziario di oggi si basa su criteri ESG, ovvero Environment, Social and Governance, non è così?

Il label ESG rating  diventa un fattore di valutazione cruciale. Moody’s, per citare un istituto di rating, valuta anche in base ai temi di diversity, inclusion, diritti umani, eccetera.

Tutti questi elementi associati ai temi ambientali sono criteri di selezione. ESG è la nuova dimensione con cui si misura la performance dell’impresa. Quelle gestite meglio hanno ESG migliori e sono anche quelle con performance finanziarie migliori. Ormai su questo non c’è più discussione.

Si può fare buona o cattiva gestione: in Italia il tema della sostenibilità viene cavalcato bene ma c’è ancora da fare. Se prendiamo le società quotate, prendiamo l’esempio di Enel: questa società ha fatto un ottimo lavoro di decarbonizzazione negli anni fino a diventare un benchmark mondiale.

Mentre se guardiamo al mondo delle Pmi, diciamo a grandi linee che un 30% ha saputo sfruttare la sostenibilità e generare produttività, vuoi sfruttando le tipicità italiane, vuoi facendo innovazione. Poi c’è un altro 30% che resiste in maniera conservativa e la parte restante che è ancora in difficoltà.
 

Qual è, secondo lei, il prossimo tema che si affermerà, dopo la (o parallelamente alla) sostenibilità?

Sarà il tema delle tasse, di cui si sta iniziando a parlare di recente. Non parliamo solo di corruzione ma di responsabilità di impresa in generale. Ci vorrà un po' perché ambiente e diritti umani non erano argomenti propri delle imprese, quindi era più facile inglobarli.

La questione della tassazione invece fa già parte della cultura d’impresa e quindi si conoscono bene le regole del gioco. È un cambio epocale e prima di oggi non c’è mai stata un’associazione tra tasse e ambiente.

Ma adesso siamo arrivati a questo punto. La responsabilità di impresa ha prima inglobato le questioni sociali, poi l’ambiente e adesso è arrivata al tema dell’elusione.