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Rapporto Ispra: il futuro dell'ambiente italiano

Con il rapporto "Transizione ecologica aperta", Ispra racconta in modo semplice e divulgativo le condizioni dell'ambiente in Italia, fra criticità e belle sorprese.

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Il rapporto Ispra “Transizione ecologica aperta”

Cosa significa ambiente”? Nel periodo della Cop26 di Glasgow tutta l’attenzione è stata comprensibilmente focalizzata sui cambiamenti climatici, ma c’è anche molto altro. La biodiversità dei vari ecosistemi, da quelli marini a quelli forestali. O ancora, la gestione dei rifiuti, l’inquinamento dell’aria, il consumo di suolo, l’impatto dell’agricoltura.

 

Già per gli addetti ai lavori è difficile destreggiarsi tra tutti questi aspetti così diversi e variamente interconnessi tra loro. Figuriamoci allora quanto possano sentirsi disorientati i cittadini, le famiglie, gli studenti, cioè proprio coloro che dovrebbero essere protagonisti della transizione ecologica.

 

A loro si rivolge l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) con una nuova pubblicazione, intitolata “Transizione ecologica aperta. Dove va l’ambiente italiano?”. Sfogliandola si nota qualche bella sorpresa, ma è altrettanto evidente che non possiamo ancora abbassare la guardia. 

 

La sfida del clima

Il capitolo sui cambiamenti climatici, per esempio, si apre con un’ottima notizia: le emissioni di gas serra prodotte dall’Italia si sono ridotte di oltre un quarto rispetto al 1990. Il merito è soprattutto delle industrie e delle centrali elettriche che hanno abbandonato carbone e petrolio a favore delle fonti rinnovabili. Trasporti ed edifici, invece, sembrano molto più in ritardo in questa evoluzione. Sempre nell’arco degli ultimi trent’anni, il suolo e le foreste hanno assorbito una quantità sempre più ingente di anidride carbonica.

 

I progressi raggiunti finora sono soltanto il primo passo di una transizione epocale per cui l’Italia deve dimostrarsi proattiva, se vuole davvero centrare gli obiettivi europei di azzeramento delle emissioni nette entro il 2050. È anche una questione di sopravvivenza per gli insediamenti umani e per le attività economiche. Il nostro Paese è proprio al centro del bacino del Mediterraneo, particolarmente fragile di fronte alle conseguenze del riscaldamento globale. 

 

L’aria che respiriamo

Un conto sono le emissioni di gas serra climalteranti, un conto sono le emissioni di sostanze inquinanti. Nove cittadini europei su dieci sono esposti a livelli dannosi di biossido di azoto, ozono e polveri sottili (PM10 e PM2.5). L’Agenzia europea per l’ambiente sostiene che ogni anno in Italia 65.700 persone muoiano prematuramente per motivi riconducibili all’inquinamento atmosferico.

 

Negli ultimi trent’anni sono stati compiuti importanti passi avanti anche su questo fronte, ma il vero cambiamento arriverà dall’elettrificazione, sostenuta a sua volta dalle fonti rinnovabili. Anche in questo caso, la geografia non aiuta. La Pianura Padana, in particolare, ha una conformazione che la attesta strutturalmente tra le aree più inquinate d’Europa.

 

Di per sé l’estate è una stagione di tregua per lo smog, perché la forte insolazione riscalda l’aria a bassa quota, facendola salire e diluendo gli inquinanti. Al tempo stesso, però, l’irraggiamento solare innesca una serie di reazioni chimiche che generano altre sostanze, in primis l’ozono.

 

Questo gas dall’odore pungente è preziosissimo tra i 20 e i 60 km di quota, dove forma una barriera che protegge dai raggi ultravioletti. Al livello del suolo, invece, irrita l’apparato respiratorio degli esseri umani e ostacola la fotosintesi delle piante, danneggiando la vegetazione e, di riflesso, anche la fauna. Nel 2020 i livelli di sicurezza dell’ozono sono stati superati da 286 stazioni italiane su 328; in 139 di esse per più di 25 giorni.

 

Il rischio idrogeologico

Un mastodontico punto debole del Belpaese sta nel rischio idrogeologico: ogni anno si conta circa un migliaio di frane, il 5,4% del territorio ha elevate probabilità di essere inondato, 1.170 km di costa sono in fase di erosione

 

Non si tratta solo di sciagurate conseguenze, anzi. L’uomo ha una rilevante fetta di responsabilità per questi eventi così traumatici e dannosi. Innanzitutto, i cambiamenti climatici (dovuti alle emissioni di gas serra di origine antropica) rendono sempre più frequenti le piogge torrenziali. Inoltre, ogni anno circa 60 chilometri quadrati di suolo vengono sacrificati per costruire strade ed edifici. E stiamo parlando di una risorsa non rinnovabile.

 

Una volta coperto dal cemento, il terreno non è più in grado di trattenere l’acqua. Quest’ultima, quindi, non penetra più nelle falde ma resta in superficie, trasportando i detriti con tutta la distruzione che ne consegue. Anche gli incendi, mangiando la vegetazione, peggiorano i processi di erosione e provocano frane superficiali.