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L’emergenza climatica è qui. Ne abbiamo parlato con Giorgio Vacchiano

Esiste un legame tra le alluvioni e gli incendi a cui assistiamo in queste settimane? E cosa possiamo fare, nel concreto, per arginare le manifestazioni più drammatiche della crisi climatica? L’abbiamo chiesto al ricercatore Giorgio Vacchiano.

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©kirkikis / 123rf.com

Lytton, cittadina canadese nella British Columbia, che sfiora i 50 gradi centigradi e viene poi quasi distrutta da un incendio. I passeggeri intrappolati nella metropolitana cinese allagata. Germania, Belgio e Paesi Bassi che piangono centinaia di morti dopo una settimana di piogge torrenziali e inondazioni. Circa duecento focolai di incendio che in pochi giorni hanno ridotto in cenere un milione e mezzo di ettari di foreste in Siberia.

 

Se c’è ancora qualcuno che si mostra diffidente sulla gravità dei cambiamenti climatici in corso, l’estate 2021 ha tolto ogni dubbio. Ma esiste un legame tra questi eventi così diversi tra loro? E cosa possiamo fare, nel concreto, per arginare le loro manifestazioni più drammatiche? L’abbiamo chiesto a Giorgio Vacchiano, ricercatore in gestione e pianificazione forestale presso l’Università Statale di Milano, autore del volume “La resilienza del bosco” e divulgatore.

 

Uno studio recente sostiene che le temperature record in Nord America sarebbero state quasi impossibili senza il riscaldamento globale. Per quale motivo?

“Quasi impossibile” vuol dire che c’era una possibilità su 10mila di raggiungere queste temperature nel clima attuale. Quando ci si chiede se un singolo evento estremo sia dovuto ai cambiamenti climatici, bisogna per forza seguire un approccio statistico. È più o meno come capire se un singolo incidente stradale su una strada molto trafficata sia dovuto alla cattiva manutenzione: sicuramente c’è più probabilità di incidenti quando la strada è in cattive condizioni, ma è molto difficile affermare che un singolo incidente sia dovuto alla cattiva manutenzione. Statisticamente sappiamo che gli incidenti aumenteranno: alcuni saranno dovuti alla cattiva manutenzione, altri no, ma nell’insieme dobbiamo aspettarci un peggioramento delle condizioni

 

Prima di questi tre giorni con le temperature di Lytton in British Columbia, il precedente record di temperatura per il Canada era inferiore di quasi cinque gradi centigradi. Normalmente questi primati vengono battuti di qualche decimo di grado. È come se sui 100 metri qualcuno facesse il record del mondo passando all’improvviso da 10 a 9 secondi: tutti concluderebbero che è dopato, perché altrimenti sarebbe impossibile un miglioramento così repentino.

 

Nel concreto, come hanno influito i cambiamenti climatici su questi estremi termici?

È interessante perché è lo stesso meccanismo che probabilmente ha generato le grandi piogge in Germania della settimana scorsa. Paradossalmente due fenomeni opposti hanno la stessa origine.

 

La causa va cercata nella corrente a getto, il “fiume d’aria” che scorre velocissimo tra le zone artiche e quelle temperate. La conoscono bene i piloti degli aerei di linea diretti dagli Stati Uniti ed Europa, che la utilizzano per compiere il tragitto più velocemente. Normalmente questa corrente viaggia in modo abbastanza rettilineo e fa da grande nastro trasportatore per tutti i sistemi meteorologici: sia le alte pressioni che portano caldo, sia le basse pressioni che portano freddo e pioggia. 

 

Cosa succede col riscaldamento globale? Sappiamo che le zone artiche si scaldano molto più in fretta delle altre, arrivando quindi ad attestarsi su temperature simili a quelle delle zone temperate. In questa situazione la corrente a getto rallenta e, di conseguenza, sbanda, formando anse e pieghe. Così i sistemi di alta e bassa pressione, invece di correre dritti a una certa velocità e andarsene dopo un po’, si bloccano e si fermano dentro queste anse. Un po’ come un pezzo di legno trasportato da un fiume che, in un meandro del corso d’acqua, non va più avanti perché la corrente si ferma.

 

Così, sia le ondate di calore come quella del Nord America, sia i sistemi temporaleschi come quello che ha stazionato sull’Europa centrale per quasi sette giorni, restano sulle stesse aree molto più a lungo di prima.

 

Per chi non è esperto di meteorologia, non è facile capire che questi fenomeni così diversi sono collegati tra loro…

È normale che per noi sia difficile capirlo perché sono fenomeni che riguardano tutto il Pianeta, tutto insieme, in un momento solo. Nessuna persona, nella storia della nostra specie, ha mai dovuto percepire e comprendere fenomeni che avvengono su una scala così ampia. Cominciamo però a vederli oggi, ed è proprio questa la loro incredibile portata di novità rispetto a quello che è sempre successo intorno a noi.

 

In Italia è ricominciata la stagione degli incendi e in Sicilia, per esempio, ce ne sono già stati decine. Fermo restando che le caratteristiche del territorio le conosciamo e il clima sta già cambiando, cosa possiamo fare in termini di prevenzione? Dobbiamo arrenderci a subire decine di roghi ogni settimana?

La prevenzione resta la migliore strategia per gli incendi. Ci sono due grandi ambiti in cui può essere efficace. Uno, a livello planetario, è quello di lottare contro i cambiamenti climatici, intensificare gli sforzi per azzerare le emissioni – in questi giorni se ne discute al G20 dei ministri dell’Ambiente a Napoli – affinché non si creino così spesso situazioni di pericolo. L’aumento delle temperature e della siccità, infatti, fa sì che un eventuale incendio possa viaggiare molto più velocemente su un’area molto più estesa. 

 

C’è anche una forma più locale di prevenzione che è legata alla vegetazione. Il fuoco ha bisogno di viaggiare da un’area verde a quella successiva; è come un erbivoro che avanza “mangiando” la vegetazione che trova. Se noi modifichiamo il territorio in modo da interrompere la possibile avanzata del fuoco in alcuni punti strategici, gli togliamo il cibo! Ciò significa creare interruzioni nella vegetazione come i cosiddetti viali tagliafuoco, zone più rade dove il fuoco è costretto a rallentare e può essere attaccato in maggiore sicurezza dalle squadre che lo spengono. Oppure significa gestire i nostri boschi in modo da non lasciare accumulare al suolo troppi rami secchi e arbusti. Se “mettiamo a dieta” il bosco, l’incendio fa più fatica a diffondersi.

 

Si tratta ovviamente di azioni che hanno un costo e spesso non vengono adottate proprio per questo. Bisogna però ragionare in termini di investimento: costa molto di più spegnere l’incendio, riparare i danni o rigenerare il territorio colpito dal fuoco.

 

A proposito di costi e investimenti, per la pandemia c’è stata una mobilitazione globale senza precedenti, per il clima no. Come si spiega questa differenza di trattamento?

La pandemia e i cambiamenti climatici presentano alcune dinamiche simili, soprattutto il loro andamento esponenziale. Non aumentano gradualmente con una velocità costante, ma accelerano. Se oggi ci sono due ricoverati in terapia intensiva e domani 4, e noi lasciamo il contagio libero di diffondersi, dopodomani non me ce ne dobbiamo aspettare 6 ma 8, e poi 16, e poi 32. Il fenomeno si impenna e rischia ben presto di andare fuori controllo. 

 

Purtroppo coi cambiamenti climatici stiamo assistendo esattamente alla stessa progressione. I fenomeni estremi stanno aumentando, sorprendendo gli stessi scienziati. I nostri modelli dicevano che questi record termici sarebbero stati raggiunti a metà secolo, non certo adesso. Ci sono invece state delle amplificazioni che hanno anticipato rispetto alle nostre previsioni, e che facciamo ancora fatica a catturare a pieno nei modelli previsionali al computer.

 

Direi però che anche con il coronavirus non siamo stati poi così bravi a intercettare e anticipare questa dinamica esponenziale. Nel nostro Paese dopo l’estate 2020 c’erano pochi contagi, ma già si vedeva dove sarebbe andata la curva. Tuttavia, abbiamo aspettato prima di avviare nuove misure. Questo ci dimostra quanto sia difficile culturalmente riconoscere un fenomeno esponenziale; ci aspettiamo una progressione più graduale.

 

Forse la differenza sta nel fatto che la pandemia è più veloce: mi accorgo del pericolo e riesco a prevederlo perché ha un orizzonte temporale di una o due settimane. Con il climate change i tempi sono più dilatati, quindi dobbiamo anticipare danni molto importanti che potrebbero manifestarsi tra dieci o vent’anni.

 

Ciò significa che c’è sempre qualcosa di più urgente di cui occuparsi: i posti di lavoro, il PIL, la crescita… Tutte cose che sembrano giocarsi su un tempo più breve ma, in realtà, dipendono moltissimo da ciò che succede con il clima. Il clima sembra meno urgente, ma sarebbe auspicabile passare all’azione prima che le sue dinamiche diventino rapide come il Covid-19.