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Climate change, l'allarme inascoltato: Aurelio Peccei

Già negli anni Settanta, il Club di Roma di Aurelio Peccei sollevava l’allarme sul futuro dell’umanità e delle risorse naturali, commissionando un report destinato a restare nella storia: “I limiti della crescita”.

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©Collectie / Archief : Fotocollectie Anefo

Dire che il modello di sviluppo che abbiamo perseguito fino a oggi è insostenibile, ormai, sembra quasi una banalità. Anche i più scettici stanno scendendo a patti con il fatto che l’umanità non possa più depredare il Pianeta per produrre e consumare senza sosta, perché le risorse prima o poi finiranno. Anzi, questo momento si avvicina inesorabile.

 

Se nel 2019 questi temi stanno diventando pian piano sempre più popolari, negli anni Settanta di sicuro le cose erano molto diverse. Possiamo immaginare, allora, il polverone scatenato dal report “I limiti della crescita”, che è stato presentato per la prima volta nel 1972.

 

I limiti della crescita

Scritto da Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows, Jørgen Randers e William W. Behrens III, tutti studiosi del MIT, “I limiti della crescita” è il primo libro in assoluto a mettere in discussione il modello di sviluppo della società.

 

I ricercatori hanno sviluppato un modello informatico strutturato su cinque variabili: crescita demografica, produzione alimentare, industrializzazione, inquinamento e consumo di risorse non rinnovabili. Sulla base della loro evoluzione, hanno poi ipotizzato diversi scenari.

 

L’opera è lunga e complessa e non può certo essere riassunta in poche righe. Le conclusioni, però, sono inequivocabili:

 

> "se l’attuale tasso di crescita della popolazione, dell’industrializzazione, dell’inquinamento, della produzione alimentare e del consumo di risorse continuerà inalterato, i limiti alla crescita del Pianeta verranno raggiunti entro i prossimi cento anni. Il risultato più probabile è un improvviso e incontrollabile declino della popolazione e della capacità industriale"; 

 

> "abbiamo la possibilità di modificare questi trend di crescita e di stabilire una condizione di stabilità economica ed ecologica che sia sostenibile anche nel futuro più lontano. Lo stato di equilibrio globale dovrebbe essere progettato in maniera tale da garantire che i bisogni materiali basici di ogni persona sulla Terra siano soddisfatti e che ciascuno abbia le stesse opportunità di realizzare il suo potenziale individuale"; 

 

> "se la popolazione globale deciderà di impegnarsi per il secondo risultato invece che per il primo, prima si inizierà a lavorarci, maggiori saranno le possibilità di successo". 

 

Il ruolo di Aurelio Peccei

Ciò che molti non immaginano è che, dietro a questo lavoro contestato ma rivoluzionario, ci sia una mente italiana. Per la precisione quella di Aurelio Peccei, prima partigiano e poi imprenditore di rilievo, impegnato nella fondazione di Alitalia, con Fiat in America Latina e infine con Olivetti.

 

Negli ultimi vent’anni della sua vita Peccei si avvicinò molto ai temi della cooperazione e dello sviluppo internazionale. Nel 1965 spettò a lui il compito di tenere il discorso di apertura del meeting internazionale dei banchieri impegnati per il sostegno economico al Sudamerica. 

 

Dopo quest’esperienza decise di fondare un’associazione senza scopo di lucro chiamata Club di Roma. La stessa che commissionò al MIT lo studio scientifico destinato a fare così tanto scalpore.

 

Di cosa si occupa il Club di Roma

Aurelio Peccei è scomparso nel 1984, ma il Club di Roma esiste ancora. Ne fanno parte scienziati, economisti, imprenditori ed ex esponenti delle istituzioni di diversi paesi del mondo, accomunati dalla volontà di fare la differenza per il bene delle prossime generazioni.

 

La sua fitta attività scientifica ha avuto come esito, in questi anni, la pubblicazione di decine di report, che analizzano il grande tema della sostenibilità da svariati punti di vista. Tra i più recenti, “Stewarding sustainability transformations” (2019), “Transformation is feasible” e “A finer future” (2018).
 

Lo studio “Transformation is feasible”

Proprio Transformation is feasible ha riscosso particolare interesse. In parte perché è stato pubblicato in occasione del cinquantesimo anniversario della fondazione dell’ente, in parte per le conclusioni a cui giunge.

 

Gli studiosi infatti ipotizzano quattro diversi scenari da qui al 2050:

 

  1.  il primo è quello del business as usual. Il risultato è un’enorme disuguaglianza sociale ed economica, che si accompagna a un rallentamento della crescita demografica e a una concentrazione della popolazione negli ambienti urbani. La lotta alla povertà e alla fame è pressoché vinta, ma i grandi divari sociali favoriscono le tensioni, il terrorismo e i conflitti armati. Le risorse del Pianeta sono pressoché esaurite e i cambiamenti climatici hanno conseguenze pesantissime, soprattutto in termini di eventi meteorologici estremi;
     
  2. il secondo prevede un’accelerazione della crescita economica, che triplica il pil globale rispetto al 2018 e permette di finanziare gli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu. All’inizio tutto sembra andare per il meglio e la povertà diminuisce, ma la ricchezza si concentra nelle mani di pochissimi privilegiati. Con il tempo le emissioni di gas serra e l’inquinamento si impennano, il consumo responsabile perde terreno, i cambiamenti climatici si inaspriscono e rendono quasi impossibile la vita in larghe parti della Terra;
     
  3. il terzo ipotizza un forte impegno su più fronti da parte di governi, aziende e società civili. Si crea però una sorta di “concorrenza” tra gli Sdgs e manca un coordinamento centrale. I cambiamenti climatici non si fermano, anzi restano la principale minaccia per l’umanità;
     
  4. il quarto, infine, prevede una trasformazione globale radicale, fatta di poche parole e tante azioni concrete. Gli sforzi si concentrano su cinque fronti: energie rinnovabili, sostenibilità del sistema alimentare, nuovi modelli di sviluppo, lotta alle diseguaglianze e, infine, un forte focus sull’educazione, sulla parità di genere e sulla pianificazione familiare. È lo scenario più ottimista, in cui nel 2050 sono stati risolti 15 Sdgs su 17.