Rimedi naturali e brevetti: il tema etico della proprietà delle piante
I brevetti, nati per tutelare l’innovazione e la ricerca, diventano controversi quando si applicano a organismi viventi o conoscenze tramandate da secoli: è giusto brevettare ciò che nasce dalla natura?

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Il dibattito sui brevetti vegetali
Da sempre le piante rappresentano una risorsa preziosa per la salute umana. Migliaia di farmaci moderni derivano da principi attivi isolati da specie vegetali tradizionalmente usate nelle medicine popolari. Tuttavia, negli ultimi decenni si è acceso un dibattito globale: è giusto brevettare ciò che nasce dalla natura?
I brevetti, nati per tutelare l’innovazione e la ricerca, diventano controversi quando si applicano a organismi viventi o conoscenze tramandate da secoli. Alcune aziende, infatti, depositano diritti esclusivi su estratti, combinazioni o processi di estrazione da piante note, limitandone l’uso tradizionale o rendendolo economicamente inaccessibile ai Paesi d’origine.
Questa pratica, chiamata spesso biopirateria, solleva domande etiche e legali: a chi appartiene una pianta? Chi ne ha scoperto l’uso, o chi ne ha registrato la formula?
Casi famosi di brevetti su piante medicinali
Diversi episodi hanno fatto emergere la complessità del tema.
- Neem (Azadirachta indica): albero sacro in India, noto da millenni per le sue proprietà antifungine e antiparassitarie. Negli anni ’90, un’azienda europea brevettò un estratto del neem come pesticida naturale. Dopo una lunga battaglia legale, il brevetto venne revocato perché basato su una conoscenza tradizionale preesistente.
- Curcuma (Curcuma longa): usata nella medicina ayurvedica per le sue proprietà antinfiammatorie, fu oggetto di un brevetto negli Stati Uniti per la “guarigione delle ferite”. Anche in questo caso, l’India contestò con successo, dimostrando l’uso tradizionale documentato da secoli.
- Ayahuasca (Banisteriopsis caapi): pianta sacra delle popolazioni amazzoniche, registrata negli anni ’80 come varietà “nuova” da un ricercatore statunitense. Il brevetto fu poi annullato, ma il caso aprì un importante dibattito sui diritti delle comunità indigene.
Questi episodi mostrano come la conoscenza tradizionale, spesso trasmessa oralmente, rischi di essere appropriata da sistemi giuridici che non riconoscono il valore collettivo del sapere popolare.
Questioni etiche e culturali
Il nodo centrale non riguarda solo la proprietà intellettuale, ma la giustizia e il rispetto delle culture d’origine.
Molte piante medicinali provengono da territori tropicali e subtropicali dove le comunità locali custodiscono da secoli i saperi legati al loro uso. Quando queste conoscenze vengono “brevettate” da laboratori o multinazionali, si crea un disequilibrio: il profitto economico si concentra in Occidente, mentre ai detentori originari del sapere restano spesso solo riconoscimenti simbolici.
L’etica naturopatica invita a considerare la terra come bene comune, e le piante come patrimonio dell’umanità. Promuovere il dialogo tra scienza moderna e saperi tradizionali significa riconoscere il valore di entrambe le prospettive: la ricerca farmacologica e la saggezza delle culture originarie.
Il futuro della fitoterapia tra ricerca e diritti
Il futuro della fitoterapia dipenderà dalla capacità di trovare un equilibrio tra innovazione, sostenibilità e rispetto dei diritti culturali.
Organismi come la Convenzione sulla Diversità Biologica (CBD) e il Protocollo di Nagoya lavorano per garantire una condivisione equa dei benefici derivanti dall’uso delle risorse genetiche e delle conoscenze tradizionali.
La sfida è creare modelli di ricerca etici, che riconoscano il contributo delle popolazioni locali e ne sostengano la tutela ambientale. La fitoterapia moderna, se condotta in modo responsabile, può diventare un ponte tra tradizione e scienza, tra rispetto della natura e progresso medico.