Intervista

Specie a rischio: quale destino per gli animali

Siamo nel pieno di una crisi della biodiversità che può essere definita a pieno titolo come la sesta estinzione di massa. Gianluca Catullo, responsabile specie e habitat del WWF Italia, ci spiega quali sono le cause profonde di questo fenomeno e come si riflette nel nostro Paese.

tartaruga-estinzione

Credit foto
©viktoriya89 / 123rf.com

Sesta estinzione di massa. Un’espressione che può apparire apocalittica ma che, di fatto, descrive appieno ciò che il nostro pianeta sta vivendo. La comunità scientifica ha individuato altri cinque momenti nella storia in cui è scomparsa la maggior parte delle specie viventi; l’ultimo in ordine di tempo risale alla fine del Cretaceo (circa 65 milioni di anni fa), quando finì l’era dei dinosauri. La crisi della biodiversità a cui stiamo assistendo si inserisce appieno in questo filone, con una differenza: il tasso di estinzione delle specie animali e vegetali è mille volte più veloce rispetto a quello naturale. Abbiamo chiesto a Gianluca Catullo, responsabile specie e habitat del WWF Italia, di spiegarci quali sono le cause profonde di questo fenomeno e come si riflette nel nostro Paese.

 

I dati ci dimostrano che siamo nel pieno della sesta estinzione di massa. Quali sono i principali fattori che contribuiscono alla perdita di biodiversità?

Siamo noi, con le nostre azioni. L’evento che sta accadendo adesso potrebbe avere un carattere di naturalità ma non è così, perché le tempistiche sono talmente veloci da non avere nulla a che vedere con quelle del passato. La minaccia principale sta nel fatto che la specie umana sia entrata in competizione con i sistemi naturali. Noi abbiamo bisogno di spazio, di terre da edificare, di campi da coltivare, di pascoli dove allevare il bestiame. Per questo, stiamo erodendo lo spazio naturale con una velocità che non ha pari nella storia. 

 

Il primo elemento scatenante dunque è la competizione, con il degrado degli habitat che ne deriva. Poi abbiamo saccheggiato le risorse naturali: l’esempio tipico è il mare, perché peschiamo sempre di più e le popolazioni ittiche non riescono a riprodursi abbastanza in fretta da compensare ciò che abbiamo sottratto.

 

Ci sono altri aspetti che hanno un impatto rilevante ma vengono spesso ignorati, come le specie aliene invasive. Quando gli animali entrano in ambiti geografici diversi da quelli d’origine, può capitare che entrino in relazione con altre specie preesistenti che non hanno sviluppato sistemi di difesa. Questo può avvenire a causa dei flussi commerciali e turistici favoriti dalla globalizzazione, oppure a causa di rilasci volontari. È il caso della testuggine palustre americana che veniva venduta nei negozi di animali. Crescendo diventava molto grande, così capitava che fosse abbandonata lungo i fiumi, entrando in competizione con la tartaruga autoctona e nutrendosi di alghe, piante e animali, fino a provocarne l’estinzione.

 

I cambiamenti climatici sono sullo sfondo. Per ora non hanno innescato l’estinzione di specie importanti, ma ci si attende che abbiano un impatto nel medio-lungo periodo perché il clima fa cambiare la vegetazione; alcune specie riusciranno a spostarsi di quota, altre spariranno. Questo è aggravato dal fatto che la nostra biodiversità è “a macchie”, cioè formata da sistemi isolati (come i parchi). Dobbiamo migliorare la connettività per permettere alle specie di muoversi.

 

Si è appena chiusa la Cop26 di Glasgow. Tra i vari impegni presi dalle istituzioni, quali sono quelli capaci di avere conseguenze positive sulla biodiversità?

Di sicuro l’impegno a contenere l’incremento della temperatura media globale entro gli 1,5 gradi centigradi è un buon risultato, perché significa anche limitare l’entità dello sconvolgimento che può interessare specie e habitat. Tutti coloro che hanno partecipato alla Cop hanno anche enfatizzato la necessità di proteggere, conservare e ripristinare la natura e gli ecosistemi. Il riferimento al ripristino è molto significativo perché tutelare non basta più. Insomma, la Cop26 di Glasgow qualcosa di positivo l’ha portato, stabilendo una volta per tutte qual è la strada da seguire. Poi è chiaro che bisognerà passare dal dire al fare.

 

In Italia ci sono stati dei progressi nella tutela della biodiversità?

Se guardiamo l’Italia da un satellite, al nord vediamo le Alpi e lungo tutto lo Stivale gli Appennini che, oggi, sono un’autostrada verde. Negli anni Cinquanta lungo gli Appennini non c’era un albero, ora sono tutti coperti di boschi. Questo perché le montagne sono aree difficili, inadatte all’agricoltura e all’urbanizzazione. Laddove l’uomo non ha grossi interessi economici, troviamo una situazione positiva.

 

Negli anni Cinquanta c’è stata la grossa migrazione dalle zone rurali alle città. Così il lupo si è trovato a disposizione spazi enormi lungo l’Appennino, spazi dove la vegetazione tornava a prosperare e al tempo stesso venivano reintrodotti caprioli, cervi e cinghiali. Il lupo è un caso studio perché è una specie flessibile che può nutrirsi di quello che trova, dagli animali selvatici fino alla frutta e ai rifiuti delle discariche. Questa sua caratteristica, associata alla disponibilità improvvisa di territori estesi e alle popolazioni di ungulati rimpinguate, hanno fatto sì che si espandesse in tutto l’Appennino; ed è un grande risultato, visto che negli anni Settanta c’era a malapena un centinaio di esemplari. Per noi questa è un’ottima notizia perché i predatori garantiscono l’equilibrio dell’ecosistema.

 

Un altro esempio è l’aquila del Bonelli (Aquila fasciata Vieillot), una specie che in Italia nidifica solo in Sicilia. Nel 2015 abbiamo intrapreso un progetto per tutelarla, scoprendo che da anni i piccoli venivano prelevati dai nidi e venduti al mercato dei rapaci. Abbiamo quindi messo in sicurezza i nidi, installando fototrappole e collaborando con le forze dell’ordine. Il risultato? All’inizio avevamo censito 30 coppie, alla fine del progetto erano una sessantina.

 

Quali sono invece gli habitat e gli animali più a rischio, sempre nel nostro Paese?

In Italia le aree problematiche sono quelle pianeggianti, pianura Padana in primis. Abbiamo prosciugato le aree umide, imbrigliato i fiumi, tolto la vegetazione arbustiva sulle sponde per fare spazio ai campi coltivati, devastato gli ambienti costieri e le dune. Gli anfibi sono in grosse difficoltà, perché le aree umide vengono bonificate e trasformate in campi coltivati. In mare, la pesca a strascico e gli ormeggi hanno gravemente danneggiato le praterie di posidonia, piante acquatiche che potremmo paragonare alle foreste tropicali in quanto a importanza per l’ecosistema e il contrasto ai cambiamenti climatici. Questi sono gli ambienti che storicamente in Italia hanno sofferto di più. Aggiungerei gli incendi nelle aree boschive del centro-sud, scatenati dall’uomo e resi più devastanti dalle condizioni climatiche.

 

Tra le specie animali in condizioni critiche citerei anche l’orso marsicano che ha la sua roccaforte nel parco nazionale d’Abruzzo e non riesce a espandersi, perché fuori dal parco trova infrastrutture, strade, ferrovie. Ciò significa che basta una patologia per rischiare di perdere la maggior parte della popolazione. 

 

Cosa può fare nel suo piccolo ciascun cittadino per tutelare la biodiversità?

Di fronte a queste notizie è normali sentirsi impotenti, ma in realtà ciascuno di noi può ridurre la propria impronta ecologica in tante maniere. Fare la spesa di prodotti locali, a km zero e di stagione potrà sembrare una scelta banale, ma ha grosse ripercussioni sulla natura perché comporta un risparmio di acqua ed energia. Un caso eloquente sono le fragole. Quelle che arrivano da noi a marzo sono coltivate attorno al parco nazionale del Coto de Doñana, una zona umida di grande rilevanza per gli uccelli migratori e per la lince pardina. Per irrigare le coltivazioni di fragole si prelevano grandi quantità di acqua, mettendo in crisi la biodiversità. 

 

Da quando ci svegliamo al mattino a quando andiamo a dormire la sera, possiamo incrementare o diminuire il nostro impatto sui sistemi naturali con ciascuna delle nostre azioni: quanta carne consumiamo, quale mezzo di trasporto scegliamo per andare al lavoro o in vacanza, a che temperatura riscaldiamo la nostra casa. C’è anche la possibilità di dare un sostegno concreto alle battaglie di conservazione del WWF. Per esempio, la campagna “A Natale mettici il cuore” permette di adottare simbolicamente una specie iconica in pericolo. Se rimoduleremo i nostri comportamenti quotidiani, avremo qualche speranza in più.