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Russia: il tema ambientale dimenticato

La guerra in Ucraina ha acceso i riflettori sulla nostra dipendenza dal gas proveniente dalla Russia. Uno Stato ancora legato ai combustibili fossili e lontanissimo da un’autentica transizione energetica.

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©mangz / 123rf.com

La guerra in Ucraina e il futuro del clima

Impossibile prevedere come si risolverà la guerra scatenata dalla Russia con l’invasione dell’Ucraina. Quel che è certo è che avrà un enorme impatto in termini umani, geopolitici, economici. E inciderà anche sulla lotta contro i cambiamenti climatici

 

I Paesi europei sono strutturalmente dipendenti dal gas naturale importato dalla Russia e non hanno mai studiato un piano B in caso di interruzione totale delle forniture: tant’è che alcuni – Italia compresa – meditano addirittura di riaccendere le centrali a carbone

 

Si tratterebbe di un macroscopico passo indietro, nel bel mezzo dell’ultimo decennio che abbiamo a disposizione per invertire la rotta della crisi climatica prima che il riscaldamento globale sfondi la barriera degli 1,5 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali.

 

Il cattivo esempio dato dalla Russia

Ma la Russia, protagonista e fautrice di questa guerra nel cuore dell’Europa, è consapevole dell’importanza della crisi climatica e sta facendo abbastanza per contrastarla

 

Nel mese di ottobre del 2021 il governo guidato da Vladimir Putin si è impegnato per la carbon neutrality (cioè l’azzeramento delle emissioni nette di gas a effetto serra) entro il 2060. Dieci anni più tardi rispetto alla scadenza che si sono dati Unione europea e Stati Uniti. Un target per il 2050 a dire il vero c’è: la riduzione delle emissioni dell’80% rispetto al 1990. Peccato soltanto che nel 1990 l’economia del Paese – a partire dall’industria pesante – fosse pressoché paralizzata, per il collasso dell’Unione sovietica.

 

Nei fatti, quindi, tale tabella di marcia è “criticamente insufficiente”. A dirlo è il Climate Action Tracker, un autorevole centro di ricerca indipendente.

 

Il principale punto debole sta nel fatto che il piano per il clima russo faccia affidamento in modo preponderante sull’assorbimento delle emissioni da parte delle foreste e del suolo. Anche includendo nel conteggio le foreste non gestite, cosa che viola le linee guida dell’Onu. Tutto questo mentre la strategia nazionale per l’energia rivolta al 2035, adottata nel 2021, si focalizza quasi esclusivamente sui combustibili fossili. E prevede di aumentarne l’estrazione, il consumo e le esportazioni verso il resto del mondo.

 

Lo strapotere dei grandi inquinatori, Gazprom e Rosneft

Un altro centro di ricerca, Cfp, ha pubblicato un report che accende i riflettori su un dato clamoroso: cento aziende, da sole, hanno generato il 70% delle emissioni di gas serra dal 1988 in poi. Al terzo posto della classifica dei grandi inquinatori c’è Gazprom. Al 27mo c’è Rosneft.

 

Entrambe producono combustibili fossili (rispettivamente gas e petrolio) e sono controllate dal governo russo. Entrambe costituiscono la spina dorsale dell’economia nazionale. Gazprom, con il suo fatturato di 116,7 miliardi di dollari nel 2021 e quasi mezzo milione di dipendenti, da sola contribuisce quasi al 3% del Pil del Paese. Si difende bene anche Rosneft, guidata dall’oligarca Igor Sechin, vicino a Putin e pertanto colpito dalle sanzioni internazionali. Nel 2020 il suo fatturato ha raggiunto i 147 miliardi di dollari, più di ExxonMobil, Shell e Chevron.

 

C’è un altro aspetto che accomuna le due aziende. A differenza di altri colossi oil&gas come Bp, che ha stravolto il proprio modello di business per abbracciare la transizione energetica, “stanno compiendo sforzi esigui, per non dire inesistenti, per limitare il riscaldamento globale al di sotto dei 2 gradi centigradi”. È quanto si legge in un’analisi di Benjamin Cooper, ricercatore del Foreign Policy Research Institute

 

È vero che Rosneft ha pianificato investimenti green pari a 5 miliardi di dollari nell’arco dei prossimi cinque anni, ma è vero anche che nel frattempo continua a trivellare nell’Artico. Così come Gazprom, che detiene il 71% delle riserve di gas russe (e il 16% di quelle globali) e ha intenzione di intensificare ulteriormente la produzione.

 

Insomma, sembra che lo Stato e i maggiori colossi economici russi non abbiano nessuna intenzione di cambiare rotta. Per il semplice fatto che a loro non conviene. Garantire un futuro al nostro Pianeta non sembra un incentivo sufficiente.