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Come anche un cambio parziale di dieta, a livello globale, potrebbe salvare il pianeta

Cambiare la propria dieta per il bene del clima significa necessariamente diventare vegani? In realtà anche cambiamenti più graduali, se moltiplicati su larga scala, portano risultati considerevoli. E anche la dieta mediterranea può essere nostra preziosa alleata.

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©nitr/123rf.com

Carne ed emissioni di CO2, cosa dice la scienza

Impossibile cercare scuse o attenuanti: il nostro sistema alimentare contribuisce in modo determinante al riscaldamento globale. Ogni anno l’uomo emette in atmosfera circa 50 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente e, su questi 50 miliardi, il 18,4% è dovuto all’agricoltura, all’allevamento e all’uso del suolo; quest’ultimo fa parte della categoria perché spesso le foreste vengono sacrificate proprio per lasciare spazio alle coltivazioni e al bestiame. 

 

“Sistema alimentare” è un termine molto vasto, e ogni pietanza che mettiamo nel piatto ha il suo impatto. Gli studi pubblicati sul tema, però, arrivano sempre alla stessa conclusione: la carbon footprint (impronta di CO2) della carne, in particolare modo quella di manzo, soppianta quella di qualsiasi cereale o vegetale. A metà strada si colloca il formaggio. 

 

Le cause sono diverse. Semplificando molto, allevare manzi richiede spazio e mangime, tanto più perché la loro vita media è più lunga rispetto a quella di un agnello o di un pollo. Mangime che è di origine vegetale e, quindi, richiede di ricavare altre aree coltivate oltre a quelle necessario per sfamare gli esseri umani. A ciò si aggiungono le emissioni di metano dovute al processo digestivo delle vacche e quelle di protossido di azoto dovute alle loro deiezioni.

 

Ma allora dobbiamo diventare tutti vegani?

La domanda sorge spontanea: cambiare la propria dieta per il clima significa inevitabilmente diventare vegani? Privandosi, quindi, di alimenti che per molti di noi sono sempre stati capisaldi della dieta e che quindi si portano dietro anche un certo valore culturale e affettivo? 

 

Gli scienziati del Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (Ipcc), in realtà, hanno adottato un approccio più morbido. Invitando piuttosto a scegliere la dieta mediterranea di una volta, quella composta prevalentemente da legumi, cereali, verdure e semi, accompagnati occasionalmente da carne e pesce in quantità moderate. 

 

Alcuni studi vanno nella stessa direzione. Una ricerca pubblicata da Pnas stima addirittura che, se tutti rispettassero le raccomandazioni nutrizionali di base, le emissioni arriverebbero a crollare del 29% entro il 2050. Nei paesi industrializzati, esse prevedono semplicemente di prediligere frutta e verdura rispetto alla carne rossa.

 

Il ruolo della psicologia (e delle aziende)

Presentata così, la questione assume già un aspetto diverso. Perché tantissime persone sono motivate a fare qualcosa per il pianeta ma, nei fatti, è davvero difficile che si convincano a cambiare dieta. Se vengono poste di fronte all’alternativa tra un succulento hamburger e un piatto di quinoa con le verdure, inevitabilmente si lasceranno guidare dall’appetito più che dalle emissioni di CO2.

 

La reticenza spesso nasce proprio dal fatto che le due opzioni vengano presentate come alternative, come se esistesse un muro tra ciò che fa male al clima e ciò che, invece, lo preserva. Un articolo del Guardian avanza un'ipotesi: perché non aggirare l’ostacolo? 

 

È quello che stanno facendo le varie startup intente a produrre carne plant-based, simile in tutto e per tutto a quella “vera” se non per il fatto che è al 100% vegetale. Oppure carne e pesce sintetici, cioè coltivati in laboratorio. Opzioni del genere permettono di rendere più veg i menu, anche quelli di fast food come McDonald’s e Burger King, senza che però i clienti lo percepiscano come un sacrificio.

 

Alcuni studi fanno notare come la semplice scelta di rinominare alcune pietanze le renda più appetibili. Addirittura la posizione all'interno dei supermercati fa la differenza: la fake meat sembra un bizzarro esperimento se viene relegata in un reparto ad hoc ma, se spostata nel banco frigo insieme alla carne, viene percepita semplicemente come una delle tante opzioni che godono di pari dignità.

 

Sono tutt’altro che piccole cose perché, se moltiplicate su larga scala, hanno un impatto reale per rispondere alla sfida numero uno del nostro tempo. Finora si è parlato tanto – a ragione – delle responsabilità dei singoli, ma è giunto il momento che anche le imprese facciano tutto ciò che è in loro potere per spingere un cambiamento collettivo.