Intervista

Fiumi e inquinamento. Intervista a Igor D’India

L'ambiente va a braccetto con l'avventura in The Raftmakers, serie documentario di Igor D'India. Nove fiumi del mondo esplorati in zattera, come gli antichi pionieri, per indagare i problemi ambientali che li affliggono.

raftmakers

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©Igor D'India

Palermitano, classe 1984, Igor D’India ha iniziato nel 2005 a viaggiare per raccontare il mondo, spesso da solo, zaino in spalla e telecamera al seguito.

 

Con il suo ultimo progetto, The Raftmakers, esplora i fiumi di quattro diversi paesi (Italia, Laos, Belize e Cuba) a bordo di zattere improvvisate costruite insieme agli abitanti del posto. 

 

Il suo obiettivo? Osservare da vicino i problemi ambientali che affliggono i fiumi, dalle dighe alla plastica, e confrontarsi con le comunità che vivono sulle loro sponde, per capire se il fiume per loro è ancora un punto di riferimento. 

 

Il frutto di questo lavoro è una web series (co-prodotta con PopCult) in sei episodi da 24 minuti ciascuno, che si possono guardare online.

 

Abbiamo raggiunto Igor per chiedergli com’è andata questa lunga e intensa avventura e cosa ha imparato sugli ecosistemi fluviali

 

Come hai avuto l’idea di girare The Raftmakers?

Nella primavera del 2015 ho fatto un sopralluogo in Laos, alla ricerca di miti e leggende legati al fiume Mekong, per trovare idee per il prossimo documentario.

 

Ero molto affascinato dai grandi fiumi perché ero appena stato sullo Yukon (tra Canada e Alaska) in canoa in solitaria, sulle orme del grande alpinista ed esploratore Walter Bonatti

 

La mia idea era quella di scendere il Mekong a bordo di una piroga insieme a un pescatore, ma non riuscivo proprio a comunicare con le persone del luogo. 

 

Un giorno, per puro caso, ho incontrato un americano che gestisce un progetto di agricoltura sostenibile in Laos e mi ha confidato il suo segreto per conquistare la fiducia dei laotiani: fare qualcosa insieme a loro. Era l’unico modo per superare quel divario che si crea con chiunque si presenti come un “turista”

 

Allora, ho deciso di costruire la mia imbarcazione. Io però di barche non ne sapevo nulla, non avevo mai fatto niente del genere in vita mia e avevo a disposizione solo pochi giorni prima del volo del rientro.

 

Così, ho costruito una zattera con il materiale che ho trovato sul posto (l’unica cosa che ho dovuto comprare era un bidone, per giunta bucato). 

 

Sul fiume sono riuscito a percorrere a fatica soltanto pochi chilometri, ma è stato un grandissimo successo dal punto di vista della collaborazione con i laotiani. A quel punto ho capito che avrei potuto esplorare i fiumi del mondo a bordo delle zattere.

 

Sul Mekong ho trovato una situazione ambientale disastrosa: c’era immondizia dappertutto e gli scarichi fognari andavano a finire direttamente nel fiume.

 

Quest’esperienza mi ha colpito molto e mi ha portato a chiedermi quale fosse la situazione ambientale nelle altre realtà del mondo. Oltre al Mekong ho esplorato altri otto fiumi in Belize, Italia e Cuba. 

 

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Igor D'India

Come ti sei mosso nei territori che hai visitato? Eri accompagnato da una troupe?

La tecnica era quella di scegliere più o meno un’area geografica che mi incuriosisse, reperire i contatti di un paio di esperti che avrei trovato in loco, e partire. Poi era tutta improvvisazione. 

 

Il 97% di The Raftmakers è stato girato esclusivamente da me con una camera e una GoPro; solo per le riprese sul Piave abbiamo avuto un altro operatore di supporto con il drone. 

 

In tutti gli altri fiumi, soprattutto in Laos, Cuba e Belize, mi sono lanciato all’avventura insieme alle persone che incontravo lì oppure ad amici (non professionisti) che accettavano di accompagnarmi. 

 

Perché questa è la mia concezione di avventura: non si può programmare tutto. Nelle sei puntate di The Raftmakers non c’è finzione, tutti gli imprevisti sono successi davvero. 

 

Tra i fiumi che hai esplorato, qual è quello più compromesso a livello ambientale?

Forse il più spaventoso è il fiume Oreto di Palermo, per la quantità impressionante di rifiuti che ho trovato in un corso di appena una ventina di chilometri, e che sono il risultato di decenni di degrado totale.

 

Ma siamo stati anche sul Piave, trovandolo senz’acqua perché era stata quasi tutta trattenuta dai grandi impianti idroelettrici. 

 

In generale, tutti i fiumi urbani che ho esplorato erano ridotti in uno stato disastroso. Il più grande e impressionante è il Mekong, che è un po’ il canale di scolo di tutto il sudest asiatico.

 

Ma ho trovato problemi anche sui fiumi del Belize, a causa di fenomeni che magari non sono noti come quello della plastica ma sono altrettanto importanti.

 

Tutti i detriti e i sedimenti che i fiumi portano fino al mare tendono a offuscare la luce del sole, cosa che danneggia in modo grave la barriera corallina.

 

I fiumi dei Maya siano abbastanza remoti; alcuni sono addirittura all’interno di riserve naturali integrali. Nonostante ciò, appena si attraversano i villaggi la situazione peggiora, perché gli abitanti buttano i rifiuti nel fiume.

 

Qual è, invece, l’esempio più positivo?

Tra i tanti fiumi che ho esplorato, citerei quelli cubani: il Rio Toa e il Rio Yumurì, che si trovano nei pressi di Baracoa, nella regione di Guantanamo.

 

Se infatti la foce è una zona turistica in cui i tour operator propongono i primi giri in barca, i tratti più a monte attraversano zone militari delle quali non si conosce nulla. Per discenderli ci siamo dovuti intrufolare, tramite le conoscenze che abbiamo trovato sul posto, trovando delle realtà quasi primordiali.

 

Lì i problemi arriveranno tra qualche anno, con l’avvento del turismo di massa, ma alcuni cambiamenti ambientali si riscontrano già adesso. La popolazione di Polydonte Imperial, una sorta di chiocciola gigante preistorica, è in fase di declino perché è cambiato il livello di umidità del suo habitat. 

 

Le popolazioni che vivono vicino ai fiumi provano a difenderli o li abbandonano all’incuria?

In generale, in territori come Cuba e il Belize ho assistito a un forte legame tra l’uomo e il fiume: ci sono tante persone che vivono di pesca o per le quali, in ogni caso, il fiume è una parte importante della vita quotidiana. Attorno ai fiumi c’è anche una fortissima spiritualità.

 

Laddove si verificano problemi di tipo ambientale, di norma è perché le persone hanno a disposizione nuovi materiali (come la plastica) ma non sono ancora consapevoli di quanto sia difficile smaltirli.

 

Nel tratto del Mekong che ho esplorato, invece, il fiume sembra semplicemente un posto in cui scaricare i rifiuti. Non è detto che sia una questione di cattiva volontà: semplicemente in molti casi mancano le infrastrutture e l’educazione ambientale. 

 

Questo, moltiplicato per decenni e milioni di persone, e aggiunto all’espansione dell’industria idroelettrica con le grandi dighe cinesi, ha ridotto il Mekong in condizioni terribili.