Lattosio, glutine, nichel: quando eliminarli davvero
L’eliminazione di alimenti contenenti lattosio, glutine o nichel è diventata una pratica comune, spesso sulla base di sintomi vaghi o autodiagnosi. Tuttavia, le evidenze scientifiche dimostrano che l’esclusione di intere categorie alimentari deve essere effettuata solo dopo un iter diagnostico preciso. L’articolo analizza le differenze tra intolleranze, allergie e scelte alimentari non motivate, approfondendo i casi in cui l’eliminazione di questi elementi è realmente indicata, secondo le attuali evidenze scientifiche.

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Intolleranze, allergie o mode alimentari? Facciamo chiarezza
La distinzione tra intolleranza alimentare, allergia e ipersensibilità non allergica è fondamentale per una corretta diagnosi e gestione clinica. Le allergie alimentari sono reazioni immunologiche mediate da IgE (immunoglobuline E), spesso rapide e potenzialmente gravi. Le intolleranze, invece, sono reazioni non immunologiche, come nel caso del lattosio, in cui è presente un deficit enzimatico.
Il fenomeno crescente delle diete di esclusione senza diagnosi si lega spesso a convinzioni errate o mode. Secondo il Ministero della Salute e l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA), escludere nutrienti essenziali senza indicazione medica può portare a squilibri nutrizionali, soprattutto in bambini, anziani e soggetti fragili.
Lattosio: come riconoscere un’intolleranza vera
L’intolleranza al lattosio è una condizione dovuta a un deficit dell’enzima lattasi, prodotto a livello dell’orletto a spazzola dell’intestino tenue. Questo enzima ha il compito di scindere il lattosio, un disaccaride presente nel latte e nei suoi derivati, nei suoi due monosaccaridi costituenti: glucosio e galattosio, che possono essere assorbiti.
La lattasi è un enzima inducibile, cioè la sua produzione può essere modulata in base alla quantità di lattosio assunta con la dieta. In soggetti geneticamente predisposti, l’espressione dell’enzima può diminuire fisiologicamente con l’età (ipolattasia dell’adulto), ma è stato osservato che la rimozione completa e prolungata del lattosio dalla dieta in assenza di una diagnosi certa può ridurre ulteriormente l’espressione dell’enzima, per meccanismi di adattamento epigenetico. In altre parole, escludere il lattosio senza motivo può portare secondariamente a una vera intolleranza, rendendo l’individuo meno capace di digerirlo in futuro.
I sintomi tipici dell’intolleranza (gonfiore, crampi, meteorismo, diarrea) compaiono da 30 minuti a 2 ore dopo l’ingestione di alimenti contenenti lattosio. Tuttavia, essi sono aspecifici e possono derivare da molte altre condizioni gastrointestinali funzionali, come la sindrome dell’intestino irritabile (IBS).
Per confermare la diagnosi è necessario effettuare un breath test al lattosio, che misura l’idrogeno espirato prodotto dalla fermentazione del lattosio non digerito a livello del colon. Solo una diagnosi strumentale consente di distinguere una reale intolleranza da una semplice percezione soggettiva.
Va inoltre sottolineato che molti soggetti intolleranti tollerano piccole quantità di lattosio, specie se assunte durante i pasti, o sotto forma di latticini fermentati (yogurt, kefir) che contengono batteri lattici in grado di predigerire il lattosio.
Glutine: solo chi ha la celiachia deve eliminarlo?
Il glutine è una frazione proteica presente in cereali come frumento, orzo e segale. È composto principalmente da gliadina e glutenina, proteine che conferiscono elasticità e coesione agli impasti. L’unica condizione clinicamente accertata che richiede un’esclusione totale e permanente del glutine dalla dieta è la celiachia, una malattia autoimmune cronica che colpisce circa l’1% della popolazione. L’ingestione di glutine in soggetti celiaci provoca una risposta immunitaria anomala con atrofia dei villi intestinali. La diagnosi si basa su test sierologici (anticorpi anti-transglutaminasi IgA e, se necessario, anti-endomisio e anti-gliadina deamidata) e viene confermata mediante biopsia duodenale.
In assenza di una reale indicazione clinica, seguire una dieta gluten-free non è raccomandato: diversi studi documentano che può condurre a carenze nutrizionali, in particolare di fibre, ferro, calcio e vitamine del gruppo B, e a un peggioramento della qualità del microbiota intestinale.
Esiste anche una condizione distinta nota come sensibilità al glutine non celiaca (NCGS, Non-Celiac Gluten Sensitivity). È caratterizzata da sintomi gastrointestinali (gonfiore, dolore addominale, alterazioni dell’alvo) e sintomi extraintestinali (astenia, cefalea, nebbia cognitiva), in assenza di positività ai marker sierologici della celiachia e senza danno intestinale. La diagnosi è di esclusione, secondo i criteri proposti da organismi come l’ESPGHAN e il Salerno Experts’ Criteria, e richiede una valutazione medica attenta.
Un'altra condizione in cui può essere indicata una riduzione dei prodotti a base di grano è la sindrome dell’intestino irritabile (IBS). In questi pazienti, i sintomi non dipendono dalla presenza di glutine, bensì dalla fermentazione di fruttani, un tipo di carboidrati a catena corta appartenenti ai FODMAPs (Fermentable Oligo-, Di-, Monosaccharides and Polyols). I fruttani sono presenti in elevate quantità in grano, cipolla, aglio e altri alimenti. La dieta a basso contenuto di FODMAPs, indicata in specifici sottogruppi di pazienti con IBS, può migliorare i sintomi, ma non implica un’eliminazione del glutine in quanto tale.
Nichel: cos’è, dove si trova e perché può dare problemi
l nichel è un metallo presente in natura, molto diffuso sia negli oggetti di uso quotidiano (gioielli, monete, cosmetici, detersivi, utensili metallici) sia in numerosi alimenti, in particolare di origine vegetale. Tra quelli con concentrazioni più elevate si segnalano: legumi, pomodori, cacao, frutta secca, cereali integrali, spinaci e alcuni ortaggi a foglia verde.
La forma più comune di reazione al nichel è la dermatite allergica da contatto (DAC), una risposta immunitaria di tipo IV (cellulo-mediata) che si manifesta con eczema localizzato, solitamente in corrispondenza dell’area di contatto con oggetti contenenti nichel. La DAC rappresenta la forma clinica più frequente di allergia al nichel, e non richiede alcun intervento dietetico, salvo indicazioni specifiche in soggetti con aggravamento sistemico dei sintomi.
In casi molto meno comuni, si può osservare la sindrome da allergia sistemica al nichel (SNAS), caratterizzata da manifestazioni cutanee diffuse, sintomi gastrointestinali (gonfiore, dispepsia, diarrea), cefalea, stanchezza e disturbi sistemici successivi all'ingestione di alimenti contenenti nichel. Tuttavia, secondo l’EAACI (European Academy of Allergy and Clinical Immunology), la SNAS è una condizione rara e la sua diagnosi richiede:
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Patch test positivo al nichel (valutazione dermatologica standardizzata)
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Presenza di sintomi sistemici riproducibili e compatibili con la sindrome
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Miglioramento clinico documentato durante un periodo di dieta a basso contenuto di nichel, sotto supervisione medica
Non esiste al momento una soglia dietetica di sicurezza universalmente accettata per l'assunzione di nichel con gli alimenti. Inoltre, il contenuto di nichel nei cibi può variare notevolmente in base alla provenienza geografica, ai metodi di coltivazione e trasformazione. Per questo motivo, l’eliminazione del nichel dalla dieta deve essere effettuata solo in caso di diagnosi accertata e sempre sotto stretta sorveglianza di un allergologo o nutrizionista esperto. Le diete fai-da-te, oltre a essere spesso inutili, possono comportare importanti carenze nutrizionali, soprattutto in regimi iper-restrittivi.
I rischi delle diete di esclusione fai-da-te
Secondo l’Istituto Superiore di Sanità e l’EFSA (European Food Safety Authority), eliminare cibi o nutrienti senza una diagnosi clinicamente documentata comporta rischi significativi per la salute. Tra questi:
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Carenze nutrizionali, in particolare di micronutrienti essenziali (vitamine, ferro, calcio, fibre)
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Alterazioni del microbiota intestinale, con effetti negativi sulla digestione, l’immunità e il metabolismo
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Peggioramento della qualità della vita, legato alla restrizione sociale e all’ansia alimentare
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Aumento del rischio di sviluppare disturbi del comportamento alimentare, come ortoressia, evitamento restrittivo, o tratti di disordine ossessivo-compulsivo legati al cibo
Inoltre, l’adozione cronica di regimi restrittivi può generare condizionamenti psicologici dannosi, tra cui:
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Ipervigilanza alimentare
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Sensazione di colpa associata all’assunzione di determinati alimenti
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Isolamento sociale dovuto alla difficoltà di condividere i pasti
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Ansia anticipatoria verso eventi legati all’alimentazione (cene, viaggi, occasioni pubbliche)
Le diete di esclusione devono quindi essere sempre personalizzate, temporanee (quando possibile) e supervisionate da professionisti qualificati, come medici, allergologi o dietisti clinici. L’autodiagnosi e l’eliminazione non giustificata di alimenti come lattosio, glutine o nichel non solo è inutile, ma può risultare clinicamente ed emotivamente dannosa, specialmente nel lungo termine.