Intervista

La Cordata, impresa e valore sociale nella città di Milano

La casa non è soltanto il mattone, ma anche un luogo dove costruire e consolidare relazioni sociali. A beneficio della comunità nel suo insieme. Questo è lo spirito che anima La Cordata, impresa sociale che opera a Milano dal 1989. Abbiamo intervistato il presidente Claudio Bossi.

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©La Cordata

Nella Milano degli iconici grattacieli firmati dalle archistar e della Caritas costretta ad aprire altri empori dove consegnare cibo ai nuovi poveri della pandemia, ci sono anche luoghi che rappresentano un modello diverso.

 

Uno di essi è incastonato nel quartiere della Barona, una periferia popolare a pochi passi dalla movida dei Navigli. Si chiama Zumbini 6 e si estende per 4.500 metri quadrati, in parte aperti alla cittadinanza (come il coworking, l’auditorium, il mercato agricolo del mercoledì, il pub) e in parte riservati a chi, in Zumbini 6, ci vive. Cioè studenti delle università vicine che prendono una stanza in affitto nel pensionato, turisti e lavoratori che pernottano nell’hotel/residence e persone in difficoltà, prese in carico dai servizi sociali, che necessitano di una sistemazione temporanea. Quando è scattato il primo lockdown e i flussi turistici si sono azzerati, alcune stanze hanno accolto i bambini rimasti soli dopo il ricovero per coronavirus dei loro genitori (è il progetto Zumbimbi, in collaborazione col Comune e altre ong). 

 

Zumbini 6 è il quartier generale della Cordata, un’impresa sociale che dal 1989 escogita nuove formule per rispondere a un bisogno molto sentito nel milanese, l’accoglienza. Con modelli di volta in volta diversi, spesso le sue strutture ospitano sia studenti e lavoratori, sia persone e famiglie fragili: funziona così a Casa alla Fontana nel centralissimo quartiere Isola, San Vittore 49 a pochi passi dall’università Cattolica e Brodolini 24 a Cinisello Balsamo. Abbiamo intervistato il presidente, Claudio Bossi.

 

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©La Cordata

In che modo un progetto abitativo può contribuire alla coesione sociale?

La nostra filosofia è quella di considerare la dimensione abitativa come l’innesto per produrre processi di coesione sociale. Questi ultimi riguardano in primo luogo gli abitanti; e qui entra in gioco il tema del sostegno reciproco, del guardare l’abitante come portatore non solo di bisogni ma anche di risorse. Faccio un esempio. In Zumbini 6 abbiamo sia studenti sia mamme con bambini che arrivano da percorsi di fragilità. Per esempio, lo studente aiuta un bambino con i compiti scolastici e, viceversa, la mamma gli rammenda una maglia o gli prepara una cena. Così si mettono in campo relazioni di aiuto a partire dalle risorse delle singole persone, invece di “schiacciarle” sulla dimensione dei bisogni. Questo meccanismo, esplorato e manutenuto in una comunità come Zumbini 6 che è abitata da 120 persone, attiva meccanismi di coesione sociale, auto mutuo aiuto, responsabilità e corresponsabilità.

 

Come si declina tutto ciò nel territorio? Nell’immaginare e realizzare la struttura abitativa, già in sede di progettazione, prevedendo una serie di collegamenti con il quartiere. Banalmente, spazi come l’anfiteatro e l’auditorium non sono riservati ai nostri abitanti ma sono aperti alla cittadinanza, organizziamo il mercato agricolo settimanale e così via. Questi elementi fanno sì che tutti i luoghi in cui siamo presenti con appartamenti e strutture siano “piattaforme dell’abitare” in cui i servizi si innestano nel territorio e, viceversa, il territorio entra nei servizi. Questi ultimi possono essere servizi di sostegno psicologico ed educativo, punti di ascolto, uso degli spazi fisici; cambiano a seconda delle caratteristiche del territorio stesso.

 

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Alcune vostre strutture si rivolgono in modo specifico ad alcuni gruppi fragili, come le persone con disabilità, i minori stranieri non accompagnati, i migranti. La pandemia ne ha creati di nuovi?

Tutta la popolazione fragile di cui ci occupiamo continua a esserci ma, in questo periodo, emergono nuove aree di fragilità. Proprio per la nostra natura di soggetti e luoghi aperti al territorio, ogni settimana riceviamo almeno una quindicina di chiamate che esprimono una domanda sommersa e non evidente ai servizi sociali. 

 

Per la precisione, questa domanda si declina su tre fronti. Il primo è quello della fragilità abitativa. L’altro giorno ci ha contattati una coppia di ventenni italiani: lei è incinta, sono sotto sfratto e non hanno alle spalle famiglie che li possano aiutare. Di domande simili ne stanno emergendo tante. Poi c’è la dimensione alimentare, perché le persone ci chiedono dove recuperare generi di prima necessità. Infine ci sono persone che si trovano in grosse difficoltà economiche, fanno fatica a pagare l’affitto e le bollette e non sanno come accedere ai contributi pubblici previsti. C’è una domanda che non è intercettata dai servizi sociali, in parte perché questi ultimi sono subissati di richieste a cui non riescono a far fronte tempestivamente, in parte perché tante persone se ne vergognano.

 

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In una città come Milano il costo dell'abitare è un problema conclamato. Qual è la vostra analisi di questo tema?

L’oggettiva difficoltà sta nel fatto che mancano case popolari. Non c’è una produzione di abitazioni a canoni molto bassi. La risposta disponibile adesso guarda più alla dimensione privata dell’edilizia convenzionata a canone concordato, ma è una risposta che si rivolge alla fascia media: parliamo infatti di affitti tra gli 80 e i 130 euro al metro quadro all’anno, il che presuppone che una famiglia abbia un reddito disponibile di almeno 2.000-2.500 euro al mese. Chiaro, una famiglia di quattro persone che vive con 2mila euro non è agiata, ma almeno un reddito ce l’ha. L’housing sociale sta rispondendo prevalentemente a questo segmento ma ne esclude molti altri.

 

Se c’è una produzione di case popolari insoddisfacente rispetto alla domanda, bisogna capire come offrire a prezzi popolari anche stock abitativi che in realtà sono destinati all’housing sociale o canone a libero mercato. Mancano, proprio fisicamente e numericamente, gli alloggi a canoni di 30-50 euro al metro quadro all’anno. Questo perché gli spazi sono stati tutti occupati dai grandi interventi immobiliari a edilizia libera dove gli affitti arrivano tranquillamente ai 200-250 euro al metro quadro e la vendita a 4-5mila; e stiamo parlando comunque di periferia. 

 

In alcune situazioni, inoltre, la difficoltà abitativa può essere temporanea: se in una famiglia il percettore di reddito rimane disoccupato, nel giro di un paio d’anni può risollevarsi. In questo caso si può intervenire attraverso un sostegno economico, ma questo viene calibrato sull’Isee, cioè sui redditi di due anni prima. Oppure si può offrire un abitare temporaneo su cui innestare i servizi che consentono alle persone di accedere alle misure di orientamento al lavoro e formazione, puntando sulle loro potenzialità.

 

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Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) destina ingenti risorse per il sociale: 3,3 miliardi ai progetti di rigenerazione urbana volti a ridurre situazioni di emarginazione e degrado sociale, 500 milioni per l'autonomia delle persone disabili ecc. Che ruolo possono avere realtà come la vostra?

La filiera è questa: i soldi del Pnrr arrivano agli enti locali che li distribuiscono al Terzo Settore. Credo che i temi siano due. Il primo è la programmazione: le realtà che lavorano sul territorio devono essere coinvolte nella co-programmazione e co-progettazione degli interventi. I bandi tuttavia impongono una velocità tale per cui manca proprio il tempo di attivare questi processi. Dall’altro lato, magari non a Milano ma nei paesi circostanti, alcune amministrazioni pubbliche non hanno le competenze tecniche necessarie per fare programmazione sul Pnrr. 

 

Secondo me c’è anche una dimensione di sistema. A Milano, per esempio, bisogna fare un ragionamento complessivo sul Comune e sulla sua area metropolitana, anche per mettere a sistema le reciproche risorse. Su questo si può giocare sia il coinvolgimento del Terzo Settore, sia la visione organica di un territorio che più ampio rispetto all’ambito amministrativo dell’ente locale. Senza questa dimensione sovralocale, a mio avviso le politiche della casa possono dare una risposta solo parziale. 

 

Infine, non dobbiamo correre il rischio di mettere a disposizione soltanto lo stock di alloggi – il mattone, per intenderci – senza però quei servizi e processi di coesione sociale che in questo momento sono fondamentali. È forse una delle risposte più importanti che possiamo dare e sollecitare. L’esperienza di Zumbimbi durante la pandemia ci ha dimostrato che i cittadini hanno una grande voglia di prendersi cura degli altri ed essere parte attiva della società. Bisogna incanalare queste energie dentro processi e percorsi di coesione sociale, senza separare la dimensione dell’abitare dalla dimensione del welfare.