Intervista

Wasteocene: l’era degli scarti, anche umani. Intervista a M. Armiero

Viviamo nel Wasteocene, l'era delle relazioni di scarto che producono profitto per pochi, relegando comunità umane e non umane in discariche invisibili e dimenticate. La descrive il professor Marco Armiero.

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Era il 2000 quando venne coniato il termine Antropocene per descrivere l’era in cui viviamo. Un’era in cui le attività dell’uomo sono talmente impattanti da modificare i cicli geofisici e la chimica del pianeta, come dimostrano in modo evidente i cambiamenti climatici. È una narrazione forte, perché ci invita a riflettere su quanto la nostra specie sia stata in grado di stravolgere equilibri millenari, con conseguenze forse irreversibili.

Ma è anche inevitabilmente parziale perché considera la specie umana come un unicum, sorvolando sulle evidenti fratture nelle nostre società. E se la nostra, invece, fosse l’era degli scarti? A proporre il neologismo di "Wasteocene" è Marco Armiero, storico dell'ambiente ed ecologista politico, a capo dell’Environmental Humanities Lab del Royal Institute of Technology a Stoccolma. L’abbiamo intervistato a pochi mesi di distanza dalla pubblicazione del suo libro “L’era degli scarti”, edito da Einaudi.

 

Leggendo il titolo viene da pensare che il suo libro riguardi prettamente la questione ambientale ma, in realtà, fin dall’introduzione parla di disuguaglianze sociali. Come ha elaborato questo concetto olistico di “rifiuti”?

Provengo da una tradizione di studi non molto praticata in Italia, l’ecologia politica, che ha la caratteristica di “ri-politicizzare la questione ambientale”. Spesso ragionare sulla crisi ecologica sottintende che sia depoliticizzata, con la solita retorica per cui siamo tutti sulla stessa barca e siamo tutti uniti nel dover spegnere l’incendio della nostra casa comune. Certo, ma se ci poniamo le domande sbagliate ci diamo le risposte sbagliate. Dobbiamo riconoscere che la crisi è socio-ecologica e colpisce le persone, ma anche i non umani, in maniera diseguale. Mettere insieme ecologia, ambiente e società è un caposaldo dello statuto disciplinare dell’ecologia politica. 

 

Se posso aggiungere una nota biografica, io sono nato e cresciuto a Napoli che è un esempio chiaro della crisi socio-ecologica attuale in cui le disuguaglianze, i rapporti di potere e la subalternità si mischiano ai rifiuti tossici o al disordine urbanistico. Troppo spesso abbiamo pensato che da un lato ci fossero i problemi ambientali e dall’altro i problemi sociali. Quello che io provo a dire è che i problemi sociali si innestano – in inglese si dice “embedded” – nei corpi degli umani, dei non umani, dell’ecosistema.

 

A volte passa il messaggio contrario. Capita per esempio di sentir dire che salvare l’ambiente sia un sacrificio a livello sociale.

Gli studiosi e le studiose parlano di ricatto occupazionale. È un qualcosa che vediamo chiaramente in luoghi come Taranto. Spesso ci è stato chiesto di scegliere tra ambiente e reddito, tra salute e reddito. Questo mi ha sempre fatto molta rabbia. Non posso dirle che lei può scegliere se morire in fabbrica o pagare l’affitto e le bollette tutti i mesi. Questa non è una scelta. La scelta è quando ci viene data la possibilità di vivere con dignità senza doverci ammalare. Questo è il grande equivoco. 

 

Si dice che gli ambientalisti, per essere tali, hanno la pancia piena. In realtà chi ha la pancia piena inquina molto di più. Prima di me, Joan Martinez Alier nell’“Ecologia dei poveri” ha spiegato che spesso i poveri sono ambientalisti nella misura in cui difendono le risorse e gli ambienti da cui traggono la loro sopravvivenza. Per i ricchi, al contrario, magari l’ambiente è il parco nazionale o la spiaggia dove andare in vacanza. 

 

Lei descrive il Covid-19 come un’epifania del Wasteocene. Come mai?

Quando parlo del Wasteocene, non parlo dell’era in cui ci sono tanti rifiuti per strada. Parlo di un’era delle relazioni di scarto (wasting relationships) che producono comunità umane e non umane di scarto in cui relegare ciò che non vogliamo avere tra i piedi. Noi quest’era degli scarti la vediamo molto poco, perché siamo distratti e perché è nascosta. 

 

Nel libro parlo di due tossicità: l’inquinamento tossico che colpisce i subalterni e le narrative tossiche, per riprendere un’espressione inventata dal collettivo di scrittori italiani Wu Ming. Secondo me le narrative tossiche sono le narrative che silenziano e invisibilizzano l’ingiustizia: se sei nato dal lato sbagliato del muro del Wasteocene è colpa tua, non sei abbastanza preparato o intelligente. 

 

In questo muro del Wasteocene, che separa chi conta qualcosa da chi non vale niente, talvolta si aprono delle fratture. Il Covid-19 è una di esse perché ci permette di vedere come le relazioni di scarto hanno prodotto discariche socio-ecologiche. È vero che il Covid-19 colpisce tutti, ma è vero che i subalterni hanno pagato un prezzo più alto in termini sanitari ed economici. 

 

Ne parlo anche per motivi biografici. Mi sono ammalato seriamente con la prima ondata di marzo 2020 e mi sono trovato a riflettere. Il fatto che anche un professore universitario come me si ammali potrebbe far dire che siamo tutti uguali, ma è vero anche che io potevo contare sugli ospedali, sull’assistenza, sullo stipendio e su una casa dove passare molti mesi di convalescenza senza preoccuparmi di come pagare le bollette. La pandemia è stata un varco che ci ha consentito di vedere le disuguaglianze, non certo una livella, per citare Totò.

 

Immagino che sia una bella sfida mettere in connessione gli studi accademici e l’esperienza autobiografica.

Non è comune unire le due cose, soprattutto in Italia. Quando facevo il dottorato mi avevano insegnato a non usare mai l’“io” ma solo le forme impersonali come “si dice”, “si pensa”. Poi ho riscoperto l’importanza dell’esperienza. Non bisogna diventare egocentrici, è vero, ma non bisogna nemmeno nascondersi e fingere che conti tutto tranne te. 

 

Il contrario del Wasteocene è il commoning. Di cosa si tratta?

Commoning viene da commons, i beni comuni. Il passaggio da "commons" a "commoning" è lo stesso che faccio da "waste" a "wasting relationships" ed è un tentativo di evitare la reificazione della cosa. La reificazione ci porterebbe a dire che i rifiuti sono gli oggetti, i cambiamenti climatici sono le emissioni e così via. Io sposto l’attenzione sulle relazioni. Se i commons sono i beni comuni, il commoning è l’infrastruttura socio-ecologica che permette ai commons di funzionare, producendo e riproducendo i beni comuni. 

 

Il passaggio dal commons al commoning ci consente di evitare un approccio molto difensivo che potrebbe essere descritto così: siamo in un mondo privatizzato in cui i beni comuni sono pochissimi; quei pochissimi che ci sono proviamo a difenderli con le unghie e con i denti. La forza del commoning, invece, è che ci consente di inventare e di produrre nuovi commons. Non siamo in una sfera di difesa bensì in una sfera performante. 

 

Io metto uno contro l’altro le relazioni di scarto e le relazioni di commoning. Le wasting relationship producono profitto per pochi attraverso l’estrazione di valore, di profitto, di vita, e attraverso l’alterizzazione. L’alterizzazione è la produzione di un altro, radicalmente altro, che non è come noi. L’alterizzazione è il fatto che un bimbo di 18 mesi muore di freddo al confine tra le Bielorussia e la Polonia e non ce ne scandalizziamo. 

 

Il commoning invece produce comunità attraverso la condivisione e le relazioni di cura. Se il problema non è lo scarto ma le relazioni che fanno sì che qualcosa o qualcuno siano scarti, dobbiamo lavorare sulle relazioni. 

 

Lei descrive alcune alcuni esempi di commoning, e sono tutti spontanei, dal basso. Ce ne può raccontare uno?

Nel libro parlo dell’ex-fabbrica SNIA Viscosa, una fabbrica di rayon nel quartiere Tiburtino di Roma. Era attiva durante il fascismo, quando l’autarchia imponeva la produzione nazionale di materie prime, ed è stata chiusa negli anni Cinquanta. Dopo decenni di inattività si decide di fare qualcosa di questo grande rudere industriale. Si ipotizza di costruire un centro commerciale o anche un condominio, iniziano i lavori ma gli scavi toccano una falda acquifera, creando un grande lago. 

 

A quel punto le comunità della zona provano a immaginare un futuro diverso, come parco e spazio popolare. Gli attivisti occupano una parte della fabbrica, trovano i documenti sulle operaie – soprattutto donne – e mettono in piedi un archivio storico che prende il nome da Maria Baccante, leader sindacale ed ex-partigiana. La vicenda è ancora in corso, non è una di quelle storie hollywoodiane a lieto fine e il Wasteocene è sempre dietro l’angolo. Per capire qualcosa di più su questa storia consiglio il video “Il lago che combatte” degli Assalti frontali e Il Muro del Canto.

 

Questo è un esempio interessante di commoning. Se ragionassimo sul rifiuto, potremmo dire che la fabbrica abbandonata è un rifiuto e bisogna metterla a valore facendoci un centro commerciale. Il contrario delle relazioni di scarto, però, non è la messa a valore bensì la creazione di comunità attraverso la condivisione e le relazioni di cura. In questo caso si crea comunità a partire da un conflitto ambientale attorno a una risorsa. Gli attivisti mettono in piedi l’archivio perché trasformare i luoghi in non-luoghi, senza storia e senza memoria, è uno dei principi fondanti del Wasteocene. 

 

In discarica, insomma, non ci finiscono solo intere comunità ma anche le loro storie e memorie. E per sabotare la discarica socio-ecologica bisogna ripartire da quelle storie.