Intervista

L'agricoltura industriale vuole poche varietà e grandi quantità

Come sottrarci alla standardizzazione imposta dall'agricoltura industriale? L'abbiamo chiesto a Isabella Dalla Ragione, agronoma che - con Archeologia Arborea - della salvaguardia della frutta dimenticata ha fatto una missione e una professione.

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Per merenda vogliamo addentare una pera? Se andiamo al supermercato, possiamo scegliere tra Kaiser, Conference, Abate, Williams, Decana e poco altro.

Preferiamo una mela? Allora ci sono Golden, Stark, Granny Smith, Royal Gala e Fuji, più tutte quelle varietà che in gergo si chiamano “club”, perché sono marchi registrati.

Questa è la normalità che ci è stata propinata per decenni dalla grande distribuzione, ma la natura ci offre molto di più

 

Ne abbiamo una prova se visitiamo il meraviglioso frutteto di Archeologia Arborea in una frazione di Città di Castello, in Umbria. Passo dopo passo ci imbattiamo nella pera Marzola, che si raccoglie a gennaio e si mangia fino a marzo; nella mela Muso di bue, simile a una pera rovesciata; nella pera Lardaia, dalla polpa bianca, succosa e zuccherina, leggermente granulosa; e in altre decine e decine di varietà (in tutto sono quasi trecento) salvate dall’oblio. 

 

Tutto merito di Isabella Dalla Ragione, agronoma che quarant’anni fa ha iniziato insieme al padre un lavoro certosino di recupero, catalogazione e studio delle antiche varietà di piante da frutto, per poi recuperarle, piantarle e mantenerle vive nel tempo. L’abbiamo intervistata.

 

Qual è stata la prima pianta da frutto che ha salvato?

La pianta che ha dato il via a tutto il lavoro da parte del mio babbo è la mela del castagno. Ha una storia molto bella, perché era nata spontaneamente dentro il tronco cavo di un castagno, alla fine del 1800.

L’abbiamo trovata da un contadino: il suo bisnonno aveva innestato questa pianta selvatica, ma l’innesto non aveva preso e lui l’aveva lasciata crescere senza altre cure. Produceva mele straordinarie, che si raccolgono a luna calante di ottobre e si conservano fino a maggio tali e quali; una dote molto preziosa, in un’epoca in cui non c’erano ancora i frigoriferi. Per questo i contadini della zona l’avevano riprodotta. 

 

È stata la numero zero della nostra raccolta, che va alla ricerca di varietà che hanno un legame stretto col territorio e le persone. Seguendo sempre questi princìpi di attenzione e alle storie e alle persone, abbiamo continuato la nostra ricerca. Negli anni Settanta e Ottanta trovavamo moltissime piante, dopodiché è diventato più difficile.

 

Qual è stata la scoperta più recente?

Uno degli ultimi ritrovamenti insperati è stata la pera Fiorentina. Era descritta negli archivi dei frati e dei nobili ma ormai l’avevo data per persa, perché in quarant’anni non l’avevo mai trovata. Poi sono andata a Pietralunga, al confine tra l’Umbria e le Marche, dove il mio babbo aveva fatto il partigiano.

Ho incontrato una sua coetanea, la signora Sergia, e le ho chiesto se aveva mai sentito parlare della pera fiorentina. Lei, come se niente fosse, mi ha risposto: “Certo, è lassù!”. Incredibile: era un’amica di famiglia, una persona con cui avevo già parlato mille volte, ma io non gliel’avevo mai chiesto e lei non me l’aveva mai detto.

 

In fondo a un dirupo ho trovato anche la pera Zucchella, un albero molto grande descritto in un libro del Cinquecento del naturalista e botanico Ulisse Aldrovandi. A portargliela era stato un ricercatore della zona, il Felici, che raccoglieva frutti e li mandava all’università di Bologna perché fossero descritti e dipinti dagli accademici più illustri. 

 

Insomma, il suo lavoro di ricerca non è puramente botanico, ma culturale in un senso più ampio.

Certo. Queste piante, soprattutto coltivate, erano parte di una cultura rurale che non era soltanto botanica. Avevano un legame stretto con la vita quotidiana, con l’alimentazione, anche con gli eventi religiosi o pagani. Ho trovato tante informazioni negli archivi. Più ancora che nei libri agronomici, che erano dell’alta nobiltà, le notizie più inusuali sono nelle ricette, nelle liste della spesa, nelle descrizioni dei pellegrini. Sono fonti straordinarie, anche se vanno sempre verificate e vagliate. 

 

Altrettanto straordinaria è l’arte. Soprattutto nel Quattrocento i grandi pittori sceglievano dei frutti per le loro opere più importanti, da collocare in chiese, conventi e altri luoghi molto frequentati. Gli artisti cercavano di riprodurre ogni varietà nel modo più fedele possibile perché il suo significato simbolico doveva arrivare a chiunque, dal nobile al contadino. In quell’epoca, dunque, c’era una maggiore attenzione al simbolo e al significato. Nel Seicento, con la natura morta, la riproduzione diventa ornamento. 

 

Ovviamente anche questa fonte va valutata, perché magari gli artisti potevano prendersi delle licenze poetiche. Tuttavia, di rado gli storici dell’arte si sono dedicati a capire quali sono i frutti rappresentati nei quadri e perché, anche quando gli autori sono grandi nomi come Piero della Francesca e Pinturicchio. Io mi sono anche permessa, giocando un po’, di scovare alcuni fraintendimenti clamorosi.

 

Come si sostiene Archeologia Arborea e quali sono i suoi prossimi progetti?

All’inizio eravamo un’associazione. Nel 2014 ho creato una fondazione, sempre no profit, perché pensavo che fosse più facile raccogliere donazioni e contributi. In realtà non è stato così semplice ma, fortunatamente, a questo progetto si sono avvicinati privati e aziende. Siamo sostenuti – tra gli altri – da Valfrutta, Kemon (un’azienda di prodotti per parrucchieri) e una fondazione americana. 

 

Da qui a poco dovrebbe partire un progetto legato ai frutteti della biodiversità in ambito urbano, in collaborazione con Valfrutta. Lo stiamo definendo e lo proporremo agli enti pubblici. Da diversi anni collaboriamo con la Fondazione Giovanni Paolo II in Medio Oriente.

Veniamo anche coinvolti per il reimpianto dei frutteti che facevano parte dei giardini storici e sono stati distrutti nel corso degli anni. Ne ricostruiremo uno nei pressi di Perugia, con le varietà storiche locali che abbiamo studiato e impiantato.

 

Insomma, non vi annoiate…

Già, non c’è proprio il pericolo di annoiarsi (ride, ndr). Anche perché le piante vanno seguite, curate, potate.

 

Per molti di noi, la frutta è quella che si compra al supermercato. Ha qualche dato che dimostra quanto siano standardizzate, e “povere”, le varietà che ci vengono proposte?

Di dati ce ne sono a bizzeffe. Ne cito uno: l’Italia è il primo produttore in Europa di pere e il terzo nel mondo. Ne produce 2 milioni di tonnellate che, per l’80%, appartengono soltanto a cinque varietà. Fino all’Ottocento di varietà ce n’erano migliaia ma sono state abbandonate perché magari erano piccole o più difficili da conservare.

 

Abbiamo perso tantissimo e, quando dico “perso”, intendo perso per sempre”. Il lavoro che abbiamo svolto è da formichine rispetto all’enorme patrimonio che è scomparso. La pera, in particolare, è quasi passata di moda perché le persone preferiscono i frutti esotici, senza sapere qual è il loro costo ecologico visto che arrivano dall’altra parte del mondo. Questo è un grande problema. Se la biodiversità non viene coltivata e conosciuta, rischiamo di perderla definitivamente.

 

Quale consiglio darebbe a un consumatore che, nel suo piccolo, vuole sottrarsi a questo appiattimento?

Gli consiglierei di conoscere meglio le varietà locali delle varie regioni italiane, visto che tuttora il nostro Paese è ricchissimo in termini di biodiversità. E, invece di comprarsi una magnolia per il proprio giardino, di piantare un bel pero, magari scegliendo una varietà antica. 

 

Ognuno può fare la sua parte, anche sostenendo iniziative come la nostra. Diamo infatti la possibilità di adottare uno dei nostri alberi e raccoglierne i frutti, lasciandone tre: uno per il sole, uno per la terra e uno per la pianta. Potrà sembrare una piccola cosa, ma ai grandi risultati si arriva per piccoli passi.