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Shein, l'inchiesta shock sulle fabbriche

Com’è possibile che un brand come Shein riesca a sfornare ogni giorno capi d’abbigliamento venduti a prezzi stracciati? A dare una risposta è un’inchiesta giornalistica sconcertante.

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©aleksandrfinch / 123rf.com

Dal fast fashion all’ultra fast fashion

Se il fast fashion è diventato tristemente noto per aver inondato i nostri armadi e il pianeta di capi usa e getta, fatti prevalentemente di poliestere (quindi di petrolio), figuriamoci cosa può fare l’ultra fast fashion. Un settore che, ora come ora, è identificato con un brand ben preciso: il cinese Shein.

 

Mentre le note catene della moda a basso costo cercano quantomeno di crearsi un’immagine più responsabile lanciando capsule collection a base di materiali riciclati, stipulando codici di condotta per i fornitori e introducendo servizi di ritiro dei capi usati, l’ultra fast fashion sembra indifferente a qualsivoglia preoccupazione etica e ambientalista, e spinge fino al parossismo le storture di questo modello.

 

Così, le collezioni sono più due all’anno (come nella moda “di una volta”) né venti (come nel caso di Zara), ma vengono sfornate a ciclo continuo, praticamente ogni giorno. D’altra parte, il design dei capi è spudoratamente copiato da quello di altri brand – per averne una prova basta seguire il trend #zaravsshein su TikTok – e materiali e rifiniture sono scadenti. Di negozi fisici non ce ne sono, salvo pop up store temporanei: viene tutto spedito dalla Cina.

 

È una moda che punta tutto sull’acquisto d’impulso, per togliersi uno sfizio senza riflettere sul passato né sul futuro di quel top o di quel paio di jeans. Ed è una moda che, nonostante tutti i suoi macroscopici limiti, funziona. Shein ha visto le vendite annue crescere del 250% nel 2020 (quando le lunghe giornate di reclusione casalinga favorivano lo shopping per noia) e del 60% nel 2021. Ora si aggira su una valutazione di 100 miliardi di dollari, più della capitalizzazione di mercato di Zara e H&M messe assieme.

 

Le terribili condizioni di lavoro degli operai

Ma com’è possibile che un modello di business del genere esista e, addirittura, prosperi? La risposta è tanto semplice quanto sconfortante: imponendo ritmi di lavoro disumani ai suoi dipendenti. Da qualche mese già circolavano indiscrezioni preoccupanti; di indiscrezioni si parla, perché il brand non fa trapelare quasi nulla all’esterno.

 

Una ricercatrice di Public Eye è riuscita a introdursi nelle fabbriche di alcuni di Shein nel distretto di Panyu, nella provincia cinese del Guangdong. Ha fotografato le colossali pile di indumenti che bloccano le uscite di emergenza; una scena che non può lasciare indifferenti, dopo i disastrosi incendi che hanno colpito le fabbriche tessili asiatiche (solo nel rogo della Ali Enterprises, nel 2012, sono morte 250 persone).

 

La reporter ha intervistato persone che lavorano 75 ore alla settimana, quasi il doppio rispetto alle 40 di un contratto full time legale in Cina; legalmente le ore di straordinario non possono essere più di 36 al mese, in questo caso si arriva a 35 alla settimana. E c’è anche chi si presenta tutti i giorni in fabbrica senza mai aver firmato un contratto.

 

Una nuova sconcertante inchiesta su Shein

Ci sono voluti altri mesi ma, finalmente, per la prima volta le telecamere nascoste sono entrate in queste famigerate fabbriche cinesi di fornitori di Shein, per tradurre questi racconti e questi numeri in immagini. Merito di un’inchiesta di Channel 4, intitolata Inside the Shein Machine, che – comprensibilmente – ha destato scalpore in tutto il mondo.

 

Qui non ci sono domeniche”, svela ai giornalisti uno degli operai abituati a lavorare 18 ore al giorno, 7 giorni su 7, con un solo giorno libero al mese. In una delle fabbriche, il salario base è pari a 4mila yuan al mese, circa 550 euro, per sfornare almeno 500 abiti al giorno; come se non bastasse, il primo mese di stipendio viene trattenuto. In un secondo stabilimento invece i lavoratori vengono pagati a cottimo, 4 centesimi per ogni indumento confezionato.

 

Per ogni errore, di per sé comprensibile in una situazione di stress così pesante, scatta la decurtazione dello stipendio. E le operaie sono costrette ad approfittare della pausa pranzo per lavarsi i capelli, perché a casa non ne hanno il tempo.

 

Shein, che non possiede alcuna fabbrica ma demanda l’intera produzione alla rete di fornitori, ha replicato con un comunicato. L’azienda si dice “estremamente preoccupata” da quanto emerso dall’indagine, poiché tali condizioni “violerebbero il codice di condotta siglato da ogni fornitore di Shein”.