Intervista

Alex Zanotelli: “Ho tentato di parlare al cuore della tribù bianca”

Uscire dal suprematismo bianco è un atto di conversione di cui il pianeta ha un profondo bisogno. Parola di Alex Zanotelli, missionario comboniano, volto del pacifismo e autore di "Lettera alla tribù bianca".

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©Elitre/Wikimedia Commons

Chi è Padre Zanotelli

La tribù bianca siamo noi. Abbiamo avuto la fortuna di nascere nella parte “giusta” del pianeta, quella in cui possediamo tutto ciò di cui abbiamo bisogno, anzi, possiamo anche permetterci di sprecare. Siamo convinti del fatto che la nostra cultura sia “la” cultura, e che tutto ciò che è diverso sia intrinsecamente inferiore. 

 

È a noi che Padre Alex Zanotelli si rivolge con il suo ultimo libro, “Lettera alla tribù bianca” (Feltrinelli). Un accorato appello che nasce dall’esperienza reale di un missionario comboniano che ha abitato in Sudan dal 1965 al 1978, è stato direttore della rivista Nigrizia per un decennio (dal 1978 al 1987) e poi ha volutamente scelto di “scendere agli inferi”, trascorrendo dodici anni a Korogocho, immensa e terribile baraccopoli di Nairobi, in Kenya. Oggi vive a Napoli, nel rione Sanità. 

 

Padre Zanotelli è un uomo di fede che parla di povertà e di emarginazione perché le ha vissute in prima persona, immerso in contesti che noi privilegiati membri della “tribù bianca” facciamo fatica anche solo a immaginare. L’abbiamo intervistato a margine del suo intervento a Fa’ la cosa giusta!, la fiera del consumo critico e degli stili di vita sostenibili a Milano.  

 

Nel suo ultimo libro, Lettera alla tribù bianca, lei accende i riflettori sul nostro rifiuto dell’altro. Da dove scaturisce?

Quando parlo, devo prima di tutto fare una premessa: anche io sono un convertito. La mia è stata una lunga conversione, ma l’evento fondamentale è stato l’aver vissuto 12 anni a Korogocho, una delle terribili baraccopoli di Nairobi. Questo mi ha fatto capire che c’era qualcosa di radicalmente sbagliato, mi ha portato a ragionare. L’ultimo episodio di Korogocho è stato quando la mia gente mi ha imposto le mani e il ministro della chiesa indipendente africana ha pregato davanti a tutti, dicendo: “Papà grazie perché Alex ha camminato con noi per questi dodici anni, ma ti prego, dona a lui lo Spirito Santo, perché possa tornare dalla sua tribù bianca e convertirla”. 

 

Il nostro problema è il suprematismo bianco. La tribù bianca da cinquecento anni ha conquistato il mondo su tre premesse fondamentali:

  • avevamo la civiltà,
  • avevamo la cultura
  • e avevamo la religione.


Questo ci ha dato il diritto di conquistare il mondo. Avremo fatto anche delle cose buone, ma abbiamo soprattutto fatto un disastro durante il colonialismo e l’occupazione di queste terre, massacrando queste popolazioni. La tribù bianca ha questo senso di superiorità che sta emergendo attraverso il suprematismo bianco che abbiamo visto negli Stati Uniti con Donald Trump e in Europa con l’ultradestra. È una cosa che ci portiamo dentro nella nostra storia. Uscirne è un atto di conversione.

 

Lei ha affermato che noi molto spesso siamo vittime della nostra non-conoscenza dell’altro, veniamo da preconcetti sbagliati. Ci fa qualche esempio?

Dato che riteniamo che la nostra cultura sia "la cultura", "la civiltà", noi non incontriamo l’altro. Imponiamo a tutti la nostra civiltà. I popoli dell’Africa, gli aborigeni dell’America e le comunità dell’Amazzonia hanno una straordinaria civiltà e umanità, soprattutto in quella relazione con l’ambiente che abbiamo dimenticato e negato, arrivando al disastro. Solo l’incontro con l’altro può aiutarci a uscire da questa trappola. Se riusciamo a incontrare l’altro, il mondo potrà lentamente diventare quello che il vescovo di Molfetta Tonino Bello chiamava “la convivialità delle differenze”. Solo se il mondo riuscirà ad arrivare a questo, accogliendo le altre culture e sentendo che le altre civiltà ed esperienze religiose possono arricchire la nostra, può esserci un futuro. Altrimenti siamo destinati a sbranarci a vicenda. 

 

L’ho espresso nel libro attraverso l’esperienza di Pierre Claverie, vescovo ucciso in Algeria nel 1996. Lui era nato ad Algeri da una famiglia francese che era lì da quattro generazioni; all’epoca, l’Algeria era una colonia francese. Lui dice: "io non ho mai incontrato l’arabo, non ho mai incontrato il musulmano". Quando i genitori lo mandano in Francia a studiare, scoppia la rivoluzione algerina – una delle più terribili guerre d’indipendenza, ha fatto almeno un milione di morti – e lui va in crisi totale. Questo è alla base della sua scelta vocazionale. Entra nell’ordine dei domenicani e torna in Algeria per incontrare l’altro, il musulmano. Farà un cammino davvero straordinario. È suo un testo bellissimo: “Nessuno possiede la verità, ognuno la ricerca”. Impariamo gli uni dagli altri, è soltanto così che possiamo arrivare a qualcosa. 

 

Lei nel suo libro parla anche di crisi ambientale. È pensabile che la “tribù bianca” prima o poi rinunci almeno in parte ai suoi privilegi, per far sì che le risorse del pianeta bastino per tutti?

Viviamo dentro un sistema economico-finanziario che permette che il 10% della popolazione mondiale consumi da solo il 90% dei beni prodotti sul pianeta. Questa è l’assurdità. Il tema centrale è proprio questo. Noi dobbiamo mettere in discussione questo sistema che crea fame e miseria e pesa enormemente: se tutti a questo mondo vivessero come vive la tribù bianca, noi avremmo bisogno di 2-3 pianeti in più. Da questo non si scappa. La tribù bianca dovrà tornare all’essenziale per permettere a tutti di vivere in questo mondo.

 

Lei è una voce storica del pacifismo, un pacifismo che in questo preciso momento sembra quasi “fuori moda”. Davvero l’unico modo per sostenere l’Ucraina è inviare armi?

Le armi non sono lì per caso. Il 10% del mondo, che vive al di sopra delle proprie possibilità, può farlo soltanto perché è armato fino ai denti. Soprattutto, è armato col nucleare che spaventa tutti. Le armi difendono lo sfruttamento. Quando non hanno determinate cose, i ricchi se le prendono con le guerre, come abbiamo fatto nel 2011 con la Libia. Gheddafi era un dittatore ma era amico di Berlusconi, quindi l’abbiamo accolto a Roma e abbiamo firmato un trattato di amicizia con la Libia. Poi, per il petrolio, l’abbiamo fatto fuori come un cane. La stessa cosa accade oggi in Congo per il coltan e il cobalto.

 

Queste sono le ragioni. Questo è un sistema economico-finanziario militarizzato perché, se così non fosse, questo 10% non potrebbe permettersi il suo stile di vita. A Korogocho mi ponevo una grande domanda: perché miliardi di persone non si ribellano? Ma c’è poco da ribellarsi, se chi si ribella viene fatto fuori. 

 

La guerra in Ucraina ci sta portando al baratro: anche io ho paura di un inverno nucleare e sono d’accordo con Papa Francesco che sostiene che oggi non esiste una guerra giusta, perché abbiamo armi batteriologiche, chimiche e nucleari. Sono d’accordo anche con Gino Strada che diceva che la guerra deve diventare un tabù, come l’incesto.

 

Cosa è accaduto in Europa? Che Putin sia un dittatore che ha invaso un paese sovrano con una guerra assurda è chiaro, ma noi cos’abbiamo fatto? Non prendiamoci in giro! Quando è caduto il muro di Berlino e Gorbačëv ha dato l’ok alla riunione delle due Germanie, ha chiesto solo una cosa: che la Nato non entrasse negli ex-Paesi del Patto di Varsavia. Invece, la Nato è entrata non solo nei Paesi baltici e dell’Est Europa, ma anche nei Paesi slavi. Papa Francesco giorni fa ha parlato dell’“abbaiare della Nato alle porte di Mosca”: è una bella immagine per dire che l’orso ha dato la sua zampata e, ora, vediamo che macello viene fuori. Adesso ci riempiono di immagini terribili ogni giorno, ma perché non hanno fatto lo stesso con quello che abbiamo combinato in Iraq e Afghanistan? 

 

Non dobbiamo parlare di crimini di guerra, dobbiamo rendere la guerra un crimine. È necessario un disarmo totale, altrimenti rischiamo di tornare alla cortina di ferro, ai blocchi, ad armarci sempre di più. Il complesso militare industriale degli Usa è il vero vincitore. Non so come facciamo a dormire sonni tranquilli, perché qui rischiamo tutto. Aggiungo una cosa: la guerra e la militarizzazione pesano enormemente sull’ecosistema. In ballo c’è la vita umana, perché il pianeta andrà avanti, ma non sopporterà più la nostra presenza. Il libro è questo, è un tentativo di parlare al cuore della tribù bianca.