Intervista

Perdono e consapevolezza per la salute. Intervista a Daniel Lumera

Daniel Lumera è riferimento internazionale nella pratica della meditazione. Gli alimenti non sono l’unico cibo di cui l’uomo ha bisogno per vivere in salute. Di quali emozioni e sentimenti ci nutriamo ogni giorno?

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©Fb Daniel Lumera

Mi metto in coda come tanti altri. Scalza. E’ una lunga fila di amici, volti riconoscenti, sguardi accolti, storie riappacificate. Ciascuna di queste persone riceverà un abbraccio e un momento di ospitalità.

 

Un’impressione si fa certa: al termine di questo lungo incontro con Daniel Lumera e i musicisti Manas Trayati, un’energia “pulita” ha nutrito l’ambiente e i suoi abitanti del momento.

 

È appena terminato il suo intervento "Il suono e il respiro nella pratica della meditazione" nell’ambito di YogaFestival a Milano: Daniel Lumera, infatti, è un riferimento internazionale nella pratica della meditazione

 

Lo studio con Anthony Elenjimittan, discepolo diretto di Gandhi, l’ha portato presto ad approfondire i temi dell’educazione alla consapevolezza e alla cooperazione alla pace.

 

Nel 2013 è l’unico ricercatore italiano selezionato a contribuire alla pubblicazione del Report Mondiale sull’Educazione Superiore della Global University Network for Innovation dell’UNESCO

 

E’ l’ideatore della Giornata internazionale del Perdono, un’iniziativa in linea con l’attività di ricerca accademica e sociale e col profondo percorso di crescita personale: da qui l’ideazione del metodo My Life Design, un percorso formativo di consapevolezza applicato al mondo scolastico, ospedaliero e portato nelle carceri. Tra i suoi libri, 21 giorni per rinascere, La via della leggerezza e La cura del perdono

 

E’ arrivato per entrambi il momento di rimettersi le scarpe.

 

Cura, dieta, economia del dono: tutto trova un ordine?

Io credo che il benessere, la salute, passi attraverso la comprensione di uno stile di vita che tocca tutti gli aspetti dell'esperienza-esistenza.

 

Partiamo dal concetto di dieta, anzi, di alimento: per molte persone è semplicemente una chilocaloria contenuta in un panino o in una pasta. Ma non è tutto qui. 

 

Gli alimenti sono i pensieri, gli alimenti sono le emozioni e gli alimenti sono le relazioni: certe relazioni ci nutrono profondamente. Pensando agli alimenti ripensiamo alla dieta: ci sono diete emozionali, ci sono diete mentali, ci sono diete relazionali, spirituali. 

 

E nella dieta sono presenti momenti di digiuno: il silenzio, ad esempio, è un digiuno mentale importante. Così come a volte sarebbe necessario un digiuno relazionale o digitale per disintossicarci dai media.  Il concetto di alimento si amplia, pervade la nostra vita. Alimento, inoltre, è anche la luce del sole, quindi la nostra relazione con la natura. 

 

Da qui possiamo dedurre che una persona può anche mangiare bene, ma se poi ha delle relazioni terribili, dei pensieri ossessivi, non si sentirà comunque in salute. 

 

Certe emozioni come l’ansia costante, la sensazione di impotenza, rancore, rabbia o i sensi di colpa non si guariscono con l'insalatina. Credo che ci voglia una cultura della consapevolezza: aprire la mente a un nuovo concetto di benessere, di saper vivere, riconsiderando cos’è la qualità della vita. 

 

C’è un alimento fisico, un alimento energetico vitale, un alimento relativo alla qualità della nostra energia vitale, un alimento emozionale. Ci domandiamo quali emozioni e sentimenti “ci mangiamo” ogni giorno? Paura, risentimento, rancore, rabbia e noia oppure simpatia, empatia, gratitudine, pace, felicità e gioia? Ci sono questi elementi nella nostra dieta emozionale? Dovrebbero. 

 

Alcune emozioni, però, sembrano esserci suggerite dalla società in cui viviamo.

Questa società vende la felicità e vende la gioia, ma ciò che vende realmente è un senso effimero di soddisfazione passeggera. Non è la felicità che deriva dall'essere: deriva piuttosto dall'avere o dal non avere, dal fare o non poter fare, dall'apparire o non poter apparire. 

 

Questo è un falso alimento, è come se mi venisse voglia di pasta fatta in casa e poi acquisto al supermercato di una sottomarca di un surrogato di farina ucraina radioattiva perché mi dicono che quella è pasta. Lo stesso succede con la felicità, ci hanno drogato, massacrato

 

La felicità è un alimento che deriva dalla consapevolezza che siamo vivi in questo istante. Dal miracolo che siamo irriproducibili e unici dovrebbe derivare un senso di entusiasmo, di felicità piena e di gioia.

 

Questi sono superalimenti di cui dovremmo nutrirci ogni giorno, ma manca un’educazione alla consapevolezza. 

 

Una rivoluzione del concetto di alimento.

Uno studio (Bruce Tainio, 1992, Università statale di Cheny, Washington, ndr) considera la frequenza vibratoria del corpo umano in rapporto alla sua salute. La frequenza del corpo umano in una condizione di salute va dai 53 ai 73 Hz mentre quando ci si ammala le frequenze si riducono, fino allo zero della morte fisica.   

 

Secondo questi dati, gli alimenti possono essere rilevati secondo le vibrazioni da essi emessi: la carne produrrebbe 0 vibrazioni; i prodotti
della terra da 0 a 15 Hz, coi frutti da albero si arriva a 30 Hz. Poi ci sono alimenti con una frequenza altissima come il cacao e le alghe, fino a 300 Hz. 

 

Ancora, alcuni studi hanno rilevato che gli Hertz del corpo si abbassano quando hai un pensiero ossessivo negativo o quando hai un'emozione negativa e quando sei arrabbiato. Stiamo lavorando per ripensare al cibo in questa chiave, alimenti ad alta vibrazione per riequilibrare cali: certo, è un’ipotesi su cui andare con i piedi di piombo ma rivoluzionerebbe il concetto di alimento: saremmo persone più o meno
vibranti e tenderemmo a essere persone che vibrano nella gioia, nell'amore, nel perdono.

 

Cercheremo quelle vibrazioni attraverso alimenti, relazioni, preghiera, meditazione e silenzi. Cercheremo contesti, allora, per innalzare le nostre vibrazioni ed essere più felici. 

 

Possiamo immaginare una società del perdono?

Abbiamo creato l'uomo economico, che deve far profitto e numeri a discapito di tutto e tutti, l’uomo a cui non importa se compra la farina radioattiva, purché costi meno. Quest’uomo deve far profitto.

 

Questo stesso uomo, invece, potrebbe invertire il paradigma e creare ricchezza a partire dalla qualità del proprio saper donare. La sfida è pazzesca: è giusto creare prosperità, non è sbagliato vivere bene, ma la sfida è creare benessere a partire da quanto vale, da quanto è profondo e potente il tuo saper donare. Donare tempo, spazio, amicizia, intelligenza, amore, presenza. Questa è l'economia del dono. 

 

Un esempio che mi riguarda. Sono entrato nelle carceri perché volevo verificare queste parole “Gli ultimi saranno i primi". Ho capito che questa cosa doveva accadere prima di tutto in me stesso, chi sono gli ultimi per te, per me, in questo momento? Vai da loro per un momento e mettili al primo posto nella tua vita. Almeno per un periodo, per un momento, e guarda cosa succede quando metti gli ultimi al primo posto. 

 

Quando sono entrato nelle carceri credevo che avrei potuto insegnare qualcosa a queste persone. Invece è accaduto il contrario. Storie diverse: di pedofili, di assassini. Mi sono chiesto chi sono io per condannare una persona per un'azione che è avvenuta in un determinato istante della sua vita. Con il progetto “Liberi dentro” ci siamo messi a disposizione di queste persone, abbiamo meditato insieme, respirato insieme, perdonato insieme. 

 

Io non sono per una giustizia punitiva, la giustizia punitiva non funziona, numericamente non funziona ed è stato dimostrato: la percentuale di recidiva in Italia è molto alta, 7 detenuti su 10 ritornano in carcere dalle 4 alle 10 volte. Di quale sicurezza stiamo parlando? Non stiamo educando queste persone: basti pensare che spendiamo al giorno circa 140 euro a detenuto, di questi solo 11 per l'educazione. Questa è una follia, soprattutto quando ci troviamo di fronte a storie di persone cresciute in situazioni disagiate, la vita li ha già castigati e noi continuiamo a punirli. Io sono per una giustizia riconciliativa

 

Parli molto di perdono. Ma che rapporto hai con la parola "scusa"?

Non è tanto la parola, ma come abitiamo ogni singola parola. Noi dovremmo essere le nostre parole e invece io ora posso dirti “cara” e odiarti.

 

Scusa e perdono sono secondo me due parole meravigliose. Chiedere scusa mette in una condizione di disponibilità, nel momento in cui ti chiedo scusa io ti dico "mi rimetto a te, nelle tue mani"; ed è un gesto di reciprocità, di ammissione, dove non è più importante il fatto di aver sbagliato. Sì, io ti sto dicendo che ho sbagliato e ti sto anche dicendo che tutto sommato sbagliare fa bene. 

 

Dipende da cosa ne facciamo dell'errore. Se l'errore diventa opportunità di
crescita, quell'errore diventa benedetto
. Noi impariamo sbagliando, l'errore è parte dell'evoluzione. Chiedendo scusa sono a chiederti se di questo errore vogliamo fare insieme un motivo di unione e di crescita. Scusa è una poesia.  

 

Il tuo perdono più difficile?

L'ho conosciuto nel 2005 in maniera molta profonda perché mi è crollato tutto: la relazione di coppia, mi hanno licenziato, ho dovuto chiudere un centro di formazione, mi sono ammalato e gli amici - siccome ero depresso - mi hanno isolato. 

 

Stavo vivendo in una condizione di dolore estremo e più cercavo di venirne fuori, più si incancreniva tutto. Ho pensato che non ne sarei mai più uscito. Ma una sera ho fatto una cosa potentissima

 

Mi sono seduto nella mia stanza di meditazione: non l'avevo mai fatta una cosa del genere e ho iniziato a ringraziare il dolore, a ringraziare la solitudine, ho ringraziato il mio senso profondissimo d’impotenza. 
Continuavo a dire grazie chiedendo “non capisco perché sei qui, ma capisco che ci dev'essere sicuramente un motivo per il mio bene supremo e voglio fidarmi nella vita”. Sempre rivolgendomi a questo dolore ho continuato “Vuoi stare qui per sempre? Io ti accolgo, ti accetto e ti dico grazie”.

 

Allora ho iniziato a piangere come un bambino e a perdonarmi perché io nella vita avevo rifiutato il dolore. Avevo rifiutato la morte, non stavo vivendo. Dovevo decidere se vivere arrabbiato, incazzato con la vita e con Dio oppure se ringraziare.

 

San Francesco insegna questo, è andato in una chiesa ricca e opulenta e ha chiesto il permesso di essere povero. Che figura rivoluzionaria questa persona! Il perdono è un valore universale, millenario: l'ho studiato nel cattolicesimo ma anche nella cultura vedica, vi sono espressioni del perdono negli indios del Brasile, ci sono tracce di perdono che hanno 4 mila anni, 2 mila prima della cultura giudaico-cristiana. Per questo penso valga tuttora la pena di approfondire.