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Lo yoga e l'ego: il marcio nella mela

L'ego nello yoga è come un veleno, penetra nella pratica e la inquina. L'insegnante in preda all'egotismo tradisce il senso sacro della trasmissione e il praticante schiavo dell'ego dimentica il progresso personale. Come evitare certi tranelli della personalità e non allontanarsi troppo dal sentiero dell'umiltà

Lo yoga e l'ego: il marcio nella mela

Yoga ed ego. Due parole simili, poggiano su una gutturale solida e sono brevi tanto quanto potenti. Se penetrano nella pratica, rischiano di invalidarla in molti modi e ciò vale tanto per il praticante quanto per l'insegnante di yoga

 

L'ego nei praticanti di yoga

Che succede se il praticante si dedica allo yoga portando tutto l'ego sul tappetino ovvero senza "dimenticarsi di esistere", diremmo, parafrasando un frammento del Tao te ching?

Possono verificarsi molte situazioni, tutte vicine al concetto di equilibrio non inteso come bilanciamento curativo basato sull'auto-ascolto, ma come ricerca di perfezione a tutti i costi.

Una lezione, ad esempio, può trasformarsi in una fiera di vanità: corpi poco vestiti, uno sguardo fugace al vicino di mat per cercare sul suo volto una qualsiasi espressione di fatica durante l'esecuzione di un'asana impegnativa, fugaci occhiate allo specchio per controllare se la ciocca è a posto, se la pelle è lucente.

A lungo andare il praticante dimentica il progresso personale, naufraga nell'insicurezza, trascura la velocità delle proprie cellule, che hanno una memoria. Il corpo registra, ma la rivalità con gli altri praticanti ha la meglio e spesso è mascherata da sorrisini simili alle espressioni che accompagnano il silenzio stampa e si traducono in una cordialità impeccabile, fredda, frigida. 

Altri praticanti vanno invece in una direzione altrettanto interessante, che si colloca esattamente sul versante opposto: diventano preda di un brusio interiore che non è la voce profonda di tutto quel che ci abita, no. Al contrario, è un ronzio che non ha soluzione di continuità, investe ogni azione e si origina da un incontro micidiale di due semplici lettere che sono la terza e la quarta delle vocali dell'alfabeto. 

Io. io, io, io, ripetute come anafora letale. Io sono, io credo, io mangio, io faccio, io pratico, io cambio, io evolvo, io mi sento, io voglio insegnare, io ho capito, io medito, io.

 

Yoga, quando ancora non era una moda: intervista ad Aleksandra Vukotik Shaligram

 

 

L'ego negli insegnanti: tradire l'arte sacra della trasmissione 

Che accade se è l'insegnante a crogiuolarsi nella palude dell'ego? A farsi schiavizzare dalla sua persona, intendendo il termine nella sua accezione etimologia collegata alla maschera che gli attori del teatro greco e latino indossavano sulla scena? L'ego vince lo yoga.

Grave, perché l'insegnante finisce con il tradire l'intenzione genuina dei praticanti sinceri. 
Grave, ma non così grave, se consideriamo che tra maestri e allievi si attiva una sorta di attrazione magnetica.

Se l'insegnante è un pupazzo, un direttore di orchestra che esegue gesti bellissimi e vuoti, i praticanti saranno esecutori senza mani o senza fiato o musicisti che imbracciano strumenti senza corde o tasti. La selezione è naturale, fisologica, avviene per affinità elettiva.  

Come può un allievo alle prime armi riconoscere un insegnante schiavo della sua maschera? 

Piano piano, lezione dopo lezione, la selezione magnetica farà il suo corso. 

Una volta un saggio agopuntore mi ha detto: "Hai una mela. Ti va di mangiarla. Dentro ci sono i semi e in alcune parti qualcosa di marcio. La devi mangiare tutta per forza?"

Sia chiaro, quindi, che non vogliamo scoraggiare chiunque si appresti alla pratica. Suggerire qualcosa, forse. Se vi accingete allo yoga, non dovete abbandonare appena sentite forti avvisaglie di ego da parte dell'insegnante. Forse è in quel momento che dovete fare i conti con voi stessi e vedere chiaramente quanto di valido c'è prendere e quanto da lasciare indietro, perché estraneo all'essenza dell'insegnamento. Una selezione, come si fa con i vestiti al cambio di stagione.

 

Insegnanti di yoga: il caso Forrest

Prendiamo in esame un caso interessante relativo al tema dell'ego e lo yoga.

Urlato a caratteri cubitali nei titoli delle riviste specializzate nell'arte del movimento, conosciuto da tutti a Manatthan, eccolo, il nome: Ana Forrest. Ana Forrest è un'insegnante di yoga piuttosto attiva, itinerante, conosciuta. La casa base della pratica è a Houston ma i suoi workshop arrivano persino in Sud Africa.

Entrando nel suo sito, l'impatto retinico è forte: la troviamo mentre esegue una sfavillante posizione sulle braccia. Subito ci catturano il link all'ultima pubblicazione e quello allo store, ebbene sì, uno store dove è possibile acquistare kit completi di dvd per fare entrare la pratica direttamente a casa vostra e tuffarvi nelle asanas con tanto di telecomando accanto al tappetino.

Tra l'oceano di immagini e il naufragio di slideshows, una frase della sua bio, in particolare, ci colpisce: Ana Forrest has been changing people’s lives for nearly 40 years. Molto forte come sentenza, no?

In un articolo molto simpatico apparso sul sito del New York Times il 29 luglio e in versione cartacea il 31 luglio, la giornalista Mary Billard ci racconta la pioniera attraverso un paragone simile a una proporzione matematica: Ana Forrest sta allo Yoga Journal come Angelina Jolie sta allo Us magazine. Viso, corpo e nome in bella vista si abbattono con periodicità regolare sulle copertine come onde anomale. 

Una tale esposizione mediatica, ci domandiamo, non danneggia una creatura delicata e preziosa quale è colui o colei che incorpora una maestria? Sì, ne lede il valore. Ne rosicchia la luce. E l'allontanamento dall'umiltà è garantito. 

Ma cosa si intende per umiltà? Spostiamoci un attimo dallo yoga e approdiamo nell'arte marziale. Il mio primo vero maestro, Enrico Vivoli, mi regalò un libro, a un certo punto della percorso, la biografia di Myiamoto Musashi. Il romanzo è stato scritto da Eiji Yoshikawa (1892-1962), valente autore giapponese, ed è diviso in sette "sottolibri" ognuno dei quali riporta un titolo evocativo (La terra, L'acqua, Il fuoco, Il vento, Il cielo, Il sole e la luna, La perfetta luce). 

Tra le pagine c'è il sudore che forgia, la strada come palestra, il lavoro nei campi, l'onore, la meditazione, i combattimenti, la rinuncia alle passioni terrene, non dissimile da quella stoica di cui Seneca fu voce illustre. Trarne un insegnamento è possibile ancora oggi, trattandosi di un libro immenso ed essendo l'attualità prerogativa dei libri in cui davvero vale la pena perdersi. Queste pagine ci avvicinano all'umiltà.

L'umiltà non è alleata di chi evita di sporcarsi le mani (nell'era attuale, per un insegnante può significare distribuire volantini, cucinare di tanto in tanto con gli allievi, etc). 
L'umiltà è vicina a chi mantiene il contatto con la natura e i suoi ritmi.
L'umiltà cammina al fianco di chi coltiva il silenzio e l'ascolto.  

Se trovate un insegnante di cui riconoscete il livello di preparazione fisica ma di cui non distinguete bene il valore umano, prendete ciò che dovete e continuate poi lungo il vostro percorso. Prima di lasciare alle spalle l'esperienza, se ne vale la pena e senza alcuna aspettativa, potreste provare a spedire al soggetto in questione il libro su Musashi e chi lo sa, magari, produrrete un cambiamento con un gesto semplice ed efficace.

Un gesto marziale. 

 

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Immagine | PlayBuzz